TRA IL VUOTO E IL NULLA,
TRA IRONICO E SARDONICO
Si dice che un Oscar premi sempre il miglior film in concorso e perciò bisogna dare per scontato che
nessuno degli altri proposti potesse competere con La grande bellezza di Sorrentino, interpretato magistralmente da
Toni Servillo, fotografia ineccepibile con sfondo Roma e alcuni suoi gangli che
fanno più riflettere, che non ammirarli. Tutt’altra cosa, ovviamente rispetto a
film di costume ai quali si fu abituati all’epoca della Dolce Vita di Via
Veneto, frequentata da persone di cinema di spicco: tra attori, registi e in
qualche caso anche produttori e sceneggiatori.
È superfluo affermare che
la città, un tempo denominata eterna, oggi è più avvolta nello squallore e
nell’insipienza che non nel brillio di una società in evoluzione. Vi mancano
personalità geniali quali Fellini o Visconti; tensioni filosofiche o
epistemologiche mentre prevale una antropologia d’accatto. Arduo pertanto il
compito, di Sorrentino e dello scrittore del testo, di individuare un quid di
cui valesse la pena narrare. Niente più dunque campi lunghi; scarsi i primi
piani; carente talvolta la dizione e non perché dovesse essere sussurrata la
battuta; superflui se non ridondanti alcuni squarci della città priva di
abitanti e comunque desolata; un miscuglio di generi diversi che fungono da
riempitivi come la scena della giraffa, col trucco, oppure un bieco – ormai – tuffo
in piscina senza alcun senso che non sia il vuoto esistenziale che già pervade
tutto il film.
Ancor più trita la
sequenza in cui appaiono seni nudi di donne sfatte, disincantate, disinibite ma
sopratutto sfiorite e mancanti del tutto di anima. Magistrale invece la
passeggiata in solitaria, all’imbrunire, del protagonista-narratore mancato
lungo le sponde del Tevere mentre un naviglio percorre le acque macilenti a
dire dell’ormai nessuna meraviglia a seguito di un viaggio nella pittoresca
metropoli della latinità. Che dire poi di vescovi, arcivescovi e cardinali
mancati, volgarmente ridotti a una laicità da strapazzo: forse con il più che
chiaro proposito di strapazzare le gerarchie ecclesiastiche.
All’inizio un tripudio di
persone che ballano tra donne e uomini insulsi, tutti adulti, sull’orlo
dell’oblio. Eroismo altresì da accatto, accattonaggio; nessuno splendore per la Cupola di San Pietro;
qualche volgarità di troppo nell’eloquio. Sconvolge comunque i piani del
racconto (una Roma in disfacimento, l’ombra di se stessa) la scena del –
mancato – esorcista: che ricorda il film omonimo di William Peter Blatty, 1973,
l’epoca in cui si viveva “in un clima di paura, irrazionalità, paranoia”:
tutt’altra cosa nella Roma del duemila e oltre fitta di mistificazione,
indolenza, rassegnazione al tran tran.
Peggio ancora la scena
dell’ultracentenaria, la novissima Madre Teresa che vive da povera per i
poveri, indotta a salire in ginocchio i gradini della Scala Santa di Piazza San
Giovanni in Laterano in onore di S. Elena: mani nude, ossute; sguardo perso nel
vuoto, un’icona del nulla, frustrazione più che ripudio della realtà del
benessere. Per il resto il vuoto, il nulla, un riempire gli spazi con un cast
di second’ordine, per arrivare alle protocollari due ore, escluso il tempo
della pubblicità e del battage.
Compromesso tra grandi,
medi e piccoli produttori cinematografici perché questa volta toccasse
all’Italia? Carenza di immaginazione negli altri benché forniti di mezzi
tecnici ed economici di più grande rilevanza del film in esame? oppure miopia,
distrazione, la speranza di rilanciare un mercato in Italia e in gran parte del
mondo, in crisi? Eppure la cinematografia ha espresso “arte a livello arte”
(basti pensare a quelli della Nouvelle Vague); è capace ancora di rappresentare
una gran parte del globo ancora esclusa dal circuito mediatico e spettacolare
per bellezza che non sia soltanto Grande ma che riescano a popolare sogni e
offrire materia per la speranza. Succede invece che per depressione da curare a
base di eroina sempre meno ci siano eroine e sempre più invece distributori di
sostanze tossiche: come la comicità alla Verdone che nulla dicono se non
parlare a se stessi per di lì a poco dimenticare di avere fatto da spettatori e
perciò impotenti a indicare una possibile svolta.
▐ LA GRANDE BELLEZZA. Superficiale e turistica confusione.