Eseguo periodicamente degli scavi nel mio
appartamento padovano dove risulto un semplice oggetto secondario tra montagne
di libri in veloce erosione ricca di crolli; (ricordo ancora il giorno
lontanissimo in cui Gianni Scalia, già allora messo peggio di me, mi disse che
aveva deciso di non conservare più i numeri dell’Espresso. Lo feci subito
anch’io, visto che ne avevo grandi pile ancora col cellophan, e non rinnovai
nemmeno l’abbonamento. Fu un salto culturale non da poco).
Adoro l’ordine. Cerco affannosamente
alcuni libri e non li trovo. Compero, per errore, una seconda copia. Quando me
ne accorgo vengo invaso da angoscia.
Però cercando invano qualcosa, trovo
felicemente tutt’altro. Tempo fa ho riesumato, in fondo a un cassetto, uno di
quei libriccini microscopici in trentaduesimo, di Vanni. Da lui ho sempre
comprato molto. (A casa mia vedeva libri messicani, asiatici. Li voleva in
prestito, mi compilava per ognuno una precisa minima scheda. Facevamo anche
scambi di stampe, chicche, rarità: ho un grande scaffale a lui dedicato).
Questo ritrovamento mi ha colmato di gioia. Si tratta di: Giovanni Scheiwiller,
Collages, con uno scritto di Raffaele Carrieri, Strenna per gli amici di Paolo
Franci, Milano 1989. Il colophon è arricchito di una breve ma significativa
dedica olografa: (esemplare) per Luciano Troisio ritrovato a Shanghai. Segue la
firma composta dal disegno di un pesce dalla cui bocca escono le lettere V.S.
18/5/90.
La data ha messo a fuoco una giornata
speciale che abbiamo passato assieme a Shanghai.
L’amicizia con Vanni risale agli anni
Sessanta. Da giovane illuso andavo spesso a Milano. Lui veniva spesso a
Cittadella in occasione dell’omonimo Premio di Poesia, più di una volta vinto
da suoi libri. E a Padova. Ci incontravamo anche con un altro comune amico:
Sandro Zanotto. Andavamo spesso in giro insieme per mezza giornata, ci
fermavamo in posti semplici, rivieraschi,lungo il Brenta. (Sandro, oltre che
ottimo poeta in lingua e in dialetto, era anche colto raffinato potamologo,
dotato di un bellissimo barcone chiamato Galioto). La locandiera ci declamava,
in un dialetto arcaico già diverso dal vero padovano, sebbene fossimo ancora
nel territorio comunale, un delizioso improbabile menu: ghe xe paste sute de
tajadele, spessatino de musseto, moleche... Piatti memorabili, altrove
introvabili. A volte Sandro organizzava piccoli scherzi alle ingenue cameriere:
fingevamo di darci del lei, chiamandoci con gran titoli. Vanni era il
Commendatore, Sandro geometra, io ragioniere. Ilari, impagabili giornate. Una
volta lungo la strada trovammo un cassonetto con una vistosa iscrizione: era
riservato ai Rifiuti Insoliti Urbani. Vanni si volle fotografare nell’atto di
gettarsi dentro al cassonetto. Mi aveva chiesto queste foto per la sua signora,
essendo precedenti all’incidente; non sono ancora mai riuscito a ritrovarle.
Siccome abito da solo non posso incolpare nessuno, ma non ho perso del tutto le
speranze.
(Anche Sandro non
c’è più. Con lui, mio concittadino, ci vedevamo più spesso, facevamo grandi
camminate notturne lungo gli antichi portici del centro storico, parlando di
poesia. Per il momento è dimenticato, ma credo che prima o poi perfino i fessi
sussiegosi accademici, più ignoranti che faziosi, che lo hanno escluso dalle
antologie dialettali, si accorgeranno che le sue poesie, specie in dialetto –
penso ad esempio alla celebre Fiora del Vin) – sono certamente tra i migliori
testi del Neorealismo Italiano).
Ho conosciuto a
un convegno, a Trieste, un funzionario della Scheiwiller:
A.A. Giovane,
cordiale. Mi ha rivelato che era in stampa un libro su Vanni. Me lo avrebbe
mandato in novembre. Sono passati due anni; mai ricevuto nulla. Da notare che
io non l’avevo chiesto. Ci siamo scambiati varie cordiali e-mail. Mi assicurò
che si trattava di un disguido del traballante ufficio spedizioni, rinnovò,
sollecitò. Nulla. Forse le poste (che in effetti nel nostro quartiere
funzionano in modo particolarmente trogloditico). Mi aveva anche proposto
un’intervista, sono ancora in attesa delle domande. So benissimo che da loro
non pubblicherò mai niente e nemmeno ci tengo. Gli ho fatto leggere le mie
cronache in diretta sulle sardanapaliche cremazioni balinesi dei due principi
Tiokorda (ho avuto la fortuna sfacciata di trovarmi proprio a Ubud in quei
giorni: le pagine più importanti che abbia mai scritto). Nemmeno una parola di
riscontro.
(Per fortuna A.
A. è un amico...)
A Shanghai
avevo scritto un piccolo resoconto di quella giornata, che condivido qui di
seguito.
*
Il cancelliere Lacommare gli aveva
segnalato l’arrivo della Commissione sicula del Premio Lastidda. Era la
terza volta che venivano in Cina e Giappone tutti in massa da Punta Raisi. Avevano
chiesto come accompagnatrice l’illustre sinologa Vilma C. già
inquieta per conto suo, vista l’ennesima infornata.
La Commissione non aveva chiesto di
lui: era stato l’editore Vanni Scheiwiller,che viaggiava con loro, a chiedere sue
notizie al Consolato. Lo cercò subito. Gli passarono la camera dell’albergo
e parlarono a lungo, con vera allegria. Purtroppo sarebbe partito il
giorno dopo per Tokyo; aveva i minuti contati ma ci teneva a visitare assieme
a lui alcune librerie antiquarie.
Non si vedevano da anni e gli dedicò
con gioia la sua giornata. Passò a
prenderlo al suo hotel, per la verità
piuttosto modesto, dove la Commissione era scesa. Arrivato nella hall gli
giunse subito il sonoro di un vivacissimo alterco italo-siculo, pieno di O
aperte, semirotacismi e passati remoti. Litigavano con la sinologa. Vanni quasi
vergognandosi, stava isolato all’altro lato della sala, a un tavolino su cui
aveva posato molti libri microscopici. Ce n’erano un paio del tipo comparsa cinematografica, melliflui olivastri untuosi che, alludendo a Vanni, lo uccellavano
chiamandolo castruccio. Finalmente girò lo sguardo verso di lui e gli fece
un ampio segno di saluto.
Non volendo avere nessun contatto lì
dentro, lo pregò a gesti di uscire e si defilarono immediatamente.
Passarono delle ore molto interessanti
nella Fu Ju Lu, piena di librerie
antiche e moderne, di straordinari
negozi di inchiostri, pennelli, bulini, carte, album, sigilli e soprattutto libri
cinesi antichi.
Alcuni erano arricchiti da illustrazioni silografiche. In questi
negozi aveva da tempo fatto amicizia con vecchi commessi, dei gran signori che
prima del 1949 avevano alte cariche.
Ora, per la benevola magnanimità del
regime, facevano i commessi, e quel
giorno uno di loro, dal bel volto
aristocratico, aprì un certo armadio riservato, dove Vanni si tuffò a cercare
febbrilmente come i topi nel formaggio.
Conosceva bene questa strada per averci
sperperato molti pomeriggi della sua vita, galleggiando
piacevolmente tra le antiche nuvole dei draghi, bighellonando e comperando quelle
meravigliose carte, colorate abilmente con tamponi di inchiostro, ritagliate,
fatate e leggere come farfalle, fatte a mano dalle artigiane cinesi come secoli
fa, con una grazia impagabile. Quella che lo ha sempre riconciliato con la
squallida e terrea Cina. Comprava anche minime morse, bulini, sgorbie,
compassi, attrezzi per incidere affilati come rasoi, pennelli calligrafici di ogni
tipo, calamai antichi di pietra nera come la lavagna, o di smeraldina ceramica
verde.
In un’altra piccola libreria si
trovavano libri vecchi e nuovi. In prevalenza provenivano da biblioteche occidentali
del periodo delle Concessioni, certo rubati o sequestrati durante i
disordini del 49-50, prevalentemente in francese e inglese, oltre che cinese.
Ma più spesso di quanto si potrebbe
pensare si trovavano libri italiani
di scuole cattoliche, stampati lì dai
dotti gesuiti e salesiani; o della casa
del fascio, con timbri vari coevi ed ex-libris affascinanti. Perfino
riviste stampate in italiano e giapponese durante la
seconda guerra mondiale (come la lussuosa Marco Polo, e, ignorati, più recenti pacchi sempre più enormi de “L’Unità”, a un fen la copia.
Quanti pomeriggi aveva tirato le 5.30,
ora di cena, in una certa piccola libreria d’angolo, dove era cliente
graditissimo! Spesso fuori pioveva, oppure era stanco a causa dei fardelli con cui
si puniva (muoversi in una grande città è sempre assai faticoso. Fu in quelle
circostanze che decise di non abitare mai più in una metropoli). Scoprì anche
dei piccoli tesori cartacei, quasi sempre in condizioni deplorevoli, in
lingua italiana.
Vanni comperò vari libri antichi e una
bella costosa collezione di impronte antiche di sigilli originali. Ce n’era
anche uno a forma di pesce e glielo mostrò. Avrebbe voluto raccontargli di
com’era Fu Ju Lu ai bei tempi: di notte decine e decine di orchestre di
ogni tipo e continente rallegravano i dehors della
strada, e altrettanti locali pieni di gente di tutte le razze e un’infinità di donne a cominciare dalle
ragazzette cinesi col ci pao, il lungo abito tradizionale con lo spacco che
sale fino all’anca (ora di nuovo tollerato in certi locali costosi), seguite dalle
russe opulente e rosee, fino alla più sconosciuta nazionalità del pianeta, in
un frastuono misto di musica, auto e risciò, nell’andirivieni ininterrotto
con cui la borghesia compradora celebrava sfrontatamente se stessa.
Vanni aveva i minuti contati, non gli
sembrava per nulla affascinato; non era nella dimensione del quotidiano altrove in cui si trovava lui. Si trascinava dietro la sua cronotomia padana. Era
casuale lo stare seduti assieme sul sedile posteriore di uno scassato tassì, come
due asteroidi, celesti sì, ma senza vita, che facciano un tantino di orbita
insieme, fino alla prossima deviazione di gravità, per sempre. Vanni era stato
vittima di un incidente d’auto in cui era rimasto ferito al volto da
schegge di vetro. Parlandone rammentò di avergli fatto una serie di foto a Torre
di Padova, dove qualche anno prima lo aveva portato assieme al poeta Sandro
Zanotto, a mangiare le moleche
in riva al Brenta. Se ne ricordò subito: ci
teneva ad averle perché erano le uniche prima dell’incidente e desiderava
donarle a sua moglie.
Gli diede un delicato incarico di una
certa fiducia visto anche il suo livello ufficiale: comperare i francobolli e,
con suo comodo (e saliva) incollarli alle sue più di cento cartoline
(ovviamente già compilate e indirizzate in prevalenza a importanti signore). Gli sembrava
assente, parlava poco, non finì nemmeno la stupenda zuppa di giao zè, specialità del rinomato ristorante del Peace hotel, ottavo piano. Nemmeno
guardò il famoso panorama dell’ansa del fiume, come da più di un secolo
hanno fatto tutti i giornalisti-scrittoripoeti.
Per questo l’aveva ingenuamente portato
sul Bund, l’illustre lungofiume,
con apparente casualità nel suo ruolo
di chaperon-fornitore immeritevole
di sontuosi scorci, in quel ristorante
lassù. Vanni era forse preoccupato per l’appuntamento con la (cupola della)
Commissione e chiese di rientrare.
Com’era suo dovere lo riaccompagnò all’albergo;
fu l’ultima volta che lo
vide: si
allontanò a passettini saltellanti, sparì confuso tra i bonsai dell’ingresso.
■ Un accurato programma di spostamento-metonimia
Il titolo Quindici
Alibi è chiaro, allusivo e ben scelto. Forse
potrebbe necessitare di un sottotitolo, se non altro per non creare
un equivoco seguìto da delusione, tra i lettori di gialli (per quanto alcune pagine non siano estranee a questa tematica). Mi pare che di ciò non si preoccupi
affatto: pochi
lettori lo compreranno, quindi il problema non si pone.
Dunque Alibi. In questa fattispecie allude soltanto all’accezione latina di Altrove. Ma anche come Prova a Discolpa? Per un solo, che
non ha mai testimoni nemmeno negli incidenti stradali, degli alibi
vanno certo a pennello.
Come fuga? Topos
letterario eterno. Altrove come Eso, come “Esotico”, Fuori e Lontano, Meraviglioso
come Display-Oblò delle Apparizioni, Avatar del Non Luogo.
Anche non storicizzato, malvisto, privo di impegno?
Tutto questo e di più.
Quindici racconti, lunghi da una a 84 pagine, scritti in
periodi differenti
(perlopiù nel XXI secolo), in luoghi diversissimi, che vanno
dall’amataodiata
Arcella (proprio il luogo esatto dove il 13 giugno 1235 Sant’Antonio
malato fece fermare il carro, e morì), a Luang Prabang, alla
mitica Angkor
Tom dai giganteschi faccioni enigmatici, a Sri Lanka locus del Ramayana,
a Goa la
Dourada, anche sulle tracce degli europei,
alloggiando in vecchi
alberghi portoghesi, olandesi, francesi, inglesi, vivendo
per caso sul posto
giornate esaltanti cruciali (dette anche epocali). Grandi emozioni, belle foto,
molti diari ancora inediti (conservati per altro volume),
pericoli e rischi ma
niente di grave, più che altro apprensione, noia, timori,
angherie burocratiche,
villania gratuita, controlli estenuanti.
Molte tracce, molte location
suggestive e molto lontane, (nel tempo,
fuori
del tempo, nel tempo interiore) e nello spazio; soprattutto
nel passato e nel
futuro.
Ovunque ma non qui.
(…)
Una caratteristica centrale che accomuna questi racconti
(solo due potrebbero
svolgersi anche all’interno dell’appartamento arcellano), è
la conclamata
location esotica, lontana, ma non necessariamente favolosa, anche
minimale metropolitana, quotidiana, anche archeologica,
banale o provvisoria.
Il Luogo/Tempo sono sempre dell’autore, che garantisce il Viaggiare con
se stessi. Nella caverna?) Un accurato programma di “spostamento-metonimia”
(probabilmente della stessa natura, o lunghezza d’onda, che
Sanguineti
attribuisce anche al Gozzano delle Lettere dall’India), sia nello spazio che nel
tempo, favorisce e risulta la costante del provvisorio, dell’itinerante.
I protagonisti rimangono in quei palcoscenici giusto il
tempo del teatro,
affinché si svolga l’eventuale improbabile vicenda. Poi le
quinte forse vengono
subito smontate, le fioriere dei cespugli tropicali
ricaricate sul traino:
non hanno più motivo di apparire,
esistere. Ma l’autore resta identico a se
stesso.
Alcuni racconti risultano privi di plot. Sembra evidente
dedurre che il
narrante, notoriamente più informato dei personaggi se non
onnisciente, qui
si riserva pochissime chances, non influisce – non riesce a
farlo – minimamente
sugli accadimenti, non seduce affatto, le persone agiscono a
prescindere
da lui e non modificano per nulla il loro comportamento.
Innamorato
delle telecamere di sicurezza è condannato a verbalizzare, a
riferire fatti,
descrizioni, resoconti diaristici, sincronici che
appartengono a un flusso di
riflessione persistente, metaforica-diacronica (in altra
sede, con più tempo
potremmo a buon diritto esaminare tutte le figure note e
care ai psicolinguisti),
stabile, un tantino ossessiva. Ma estesa alle appendici
liberatorie del
sogno, dell’incubo incensurato.
Probabile verifica, étalage
della rassegnazione, delle troppe
delusioni, di
insopportabili tradimenti
che hanno costretto a oltrepassare l’irreversibile
linea d’ombra,
il punto di non ritorno, verso il vuoto simbolico.
Teo
Rapagnetta
■[dalla postfazione a: Luciano Troisio, Quindici alibi, Cleup, Padova 2011]■
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