Ignazio Apolloni • Lettera d'amore a un personaggio immaginario

LETTERA D’AMORE
A UN PERSONAGGIO IMMAGINARIO
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Gentile signora
Scommetto che questa lettera la sorprenderà non poco, scritta com’è a mano per mancanza di energia elettrica. Stenterà pertanto a decifrarla a meno di avvalersi di poteri particolari di cui pare sia ben dotata. È quasi una fola (non male la fola) quella secondo la quale lei – nata non si sa dove – avrebbe abitato questi luoghi dall’infanzia fino ai quattordici anni per poi dileguarsi come nebbia diradata dal sole in ascesa. Nientemeno si dice che lei avrebbe cavalcato il sole fino a quando non si è tuffata nel lago posto a due passi da qui: ed ecco spiegato il perché mi ci trovo, circondato da una masnada vuoi di avventurieri e vuoi di bugiardi pronti a giurare di averla vista svanire e riapparire più volte.
Sapesse quante leggende girano sul suo conto: alcune autentiche perché frutto di convenzione tramandatasi di generazione in generazione; altre palesemente inventate lì per lì. La ragione è che oltre alla mia troupe ce n’è almeno una dozzina intente a scavare per trovare i reperti previsti dalle rispettive missioni: non disgiunte però da ricerche sull’autenticità della sua presenza – quasi una principessa o una diva – nel Tagikistan dove tutti noi ci troviamo. Ovviamente al seguito abbiamo tutta una letteratura composta di immagini mitiche (quelle che la ritraggono a cavalcioni del sole oppure a dorso di un delfino: e qui sorge il sospetto del falso perché nel lago in prossimità del quale stiamo operando non ci sono delfini, e in verità neanche balene). Non ci mancano neppure filmati di queste presunte sue apparizioni – in ore spesso antelucane – ma non possiamo proiettarle perché la zona non è servita di energia elettrica sicché dobbiamo affidarci alla memoria.
Avevamo fatto il pieno, prima di partire, io e la mia assistente (ricercatrice presso l’Università di Glasgow dove ho la cattedra di paleontologia). Si sa però che le immagini sfumano, tratteniamo soltanto quelle che ci colpiscono di più. Di qui la presente in quanto non c’è sonno che non sia turbato dalle sue sembianze; notte che non passi in sua compagnia, vestita ora da cammelliera; ora da raissa; ora totalmente ignuda.
Or ora ho detto come mi senta preso dai turchi: che qui sono molto numerosi in quanto l’area in cui stiamo effettuando scavi e ricerche sono prossime all’estrema parte dell’impero ottomano prima della sua dissoluzione. Non male comunque perché almeno il turco – che parlo correntemente – mi aiuta a capire lingua ed occhi, sguardi e ammicchi di questa popolazione di ladri. Tanto per darle contezza di ciò che affermo su questa loro propensione a far proprio il frutto della fatica di altri cito: un giorno scompaiono pescetti in salamoia che ci siamo portati un po’ tutti per sopperire alla carenza di sale; il successivo rimane ben poco dei ritrovamenti più preziosi quali, ad esempio scheletri fossili di pesci giganti assimilabili ai nostri cetacei; più spesso di quanto possa sembrare possibile le attribuiscono poteri magici vuoi per darsi un tono e vuoi per mostrare conoscenza delle nostre fiabe: in tal modo tentando di snaturarle ai nostri occhi. Ecco che allora la assimilano a qualcosa come la Fata turchina (dandole però il nome di indaco perché nella loro lingua autoctona la parola turchino non esiste). Insomma, capirà come sia una vitaccia, quella nostra; come si rischi grosso a star loro dietro; il perché di questo mio sfogo in chiave di lettera d’amore, fiducioso che a raccoglierlo sia lei mentre seduta sul divano si trastulla con un qualsiasi pupazzo cui abbia dato il nome di Willie.
Tuttavia forse mi sbaglio a vederla incarnata nel mito della femme fatale del popolo tagiko. Sebbene le sue siano sembianze orientali, e profumo di spezie lungo tutto il corpo, le manca il selvatico di chi, nella primissima infanzia, abbia portato al pascolo mandrie di cammelli schioccando la lingua per indurli a seguirla, o per annunciare loro la prossimità della pastura. Secondo la narrazione e descrizione che me ne hanno fatto lei sarebbe stata a tal punto intrepida da attraversare contrade piene di briganti; avrebbe valicato passi e costeggiato anfratti abitati da lupi famelici; appena attratta dal richiamo di un imprecisato strumento parte a corde e parte a fiato suonato da un arcano. Si vuole che quanto più lei prosegua verso la meta tanto più il mistero si allontani finché, per far presto e superare l’empasse salta; raggiunge l’altezza del sole; ci si mette sopra come fosse la sua guida, lo sferza. Sempre stando alla leggenda poco prima del tramonto potrebbe avere raggiunto il suonatore di zufolo a corde. Altro però non si sa, dal che il mistero sulla sua sorte e quella del suo perduto amore.
C’è tuttavia un’altra versione più confortante. L’ho raccolta durante il viaggio di ritorno. Carico di gloria quasi fossi un Radames, ma solo perché ho pieno il gippone di reperti fossili tra cui la bacchetta con la quale dava ordine ai cammelli di non brucare se non erbe nutrienti e medicamentose. La versione alternativa dei tagiki, ancor più portati a favoleggiare la presenza nel loro territorio di un Pan donna, parla di fiumi che si riempiono d’acqua nel momento in cui lei li guada; oppure di boschi fitti di vegetazione, al punto da sembrare inviolabili, i cui tronchi degli alberi più grossi si inchinano mentre i virgulti si adagiano così formando un manto verde e lei stessa cambiando colore ad ogni passaggio.
E non è tutto perché miriadi di uccelli intonano sinfonie solo a sentire da uno o più dei loro fratelli dell’arrivo di Helena (così tradotto in ebraico il suo nome) mentre i più alati di essi volteggiano nel cielo in segno di giubilo. Rimasi stupefatto, ed altrettanto lo furono i componenti della mia missione. Sembrava incredibile che un popolo rude, roccioso tanto quanto buona parte del suo territorio, potesse avere un simile senso della magia e predisposizione a scrivere favole: eppure è successo. Ne fanno fede alcune espressioni e suoni di quei viandanti da noi intervistati durante il nostro ritorno. Non fosse vero ciò che ho scritto fin qui, potesse cadermi la lingua.
Non temo, ad ogni modo, il verdetto perché esistono le registrazioni di quanto ho detto: sol che si sia capaci di intenderne il senso.


Ignazio Apolloni


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