Un’annotazione di
viaggio. Il reportage di un’esperienza.
Nelle divagazioni
temporali esiste uno spazio concomitante con le traiettorie che si diramano a
partire da un guscio distante. Talune si divincolano dalla mente puntando per
inerzia verso l’oscurità; altre restano imbrigliate nei circuiti della memoria
lontana, pronte a riaffiorare vivaci come porzioni di segmenti in un presente
assoluto, irrintracciabile tra le asperità dello spazio visibile. Esplosive
ombre nelle intercapedini della coscienza.
Nel vorticare mai
sfiancante, nel fremito di una mente che diffonde meditazioni sulla carta, Ignazio
Apolloni avviluppa l’attenzione nel mistero che sta per essere svelato. Ogni
volta é così, fin quando non si realizza ‒ occhi sgranati e fiato sospeso ‒ che é tutto talmente
sereno e semplice da sentirsi stolti a non aver riflettuto su una
considerazione fondamentale: la straordinarietà delle cose é nella disarmante
squisitezza delle cose stesse.
Vivace e illuminato
lungo la scia di pragmatica conversazione con le circostanze scandagliate fin
nelle dimensioni infinitesimali, Apolloni ingentilisce e rende storia
unica una semplice percorrenza. Un dato di fatto. Una traccia
inequivocabile nella sequenzialità degli eventi. Lo stampo originale per
connotare di vitalità la sua esistenza.
Come può mai il
pensiero da solo alitare senza un intrigante incentivo che lo sostenga? Una
domanda retorica, questa, che mai porgerò all’autore. Già ne possiede la
risposta nel macro-ambiente del quale nel tempo si è nutrito e ancor si nutre.
Anche quando a dettare le regole sono eventi che lo incontrano solo di un soffio, in un racconto raccontato, in uno
sguardo percepito oltre la fronte corrugata. Al di là delle spire di fumo che
si dilatano da una sigaretta. Superfluo enucleare l’immagine come un incontro
rinnovato a un bistrôt: Filippo Tedeschi, il protagonista della storia, Anna,
le comparse d’eccezione in forma di saporite cibarie.
Occasioni di parola.
Terapia del vivere.
Vale la pena procedere.
L’attesa rende il momento una luce grigia che va a dissiparsi fino a toccare il
bianco albino.
Attendo e intanto
leggo.
Ignazio Apolloni non
delude.
Procedo a scorrere
parole che ramificano il loro significato fino ad infiltrarsi nella frase,
nelle discrepanze temporali; si insinuano tra una proiezione e l’altra ‒ between the acts ‒ frantumando l’icona
lineare e curvando verso qualcos’altro che non é mai altro da un tassello di
ulteriore significazione, cui rimanda senza evocazione tangibile. Invadente.
Invasiva.
Poi il silenzio dilaga
sullo spartito; spazza via segnali di direzione e nei segnali di fumo si
percepisce l’intenzione, come se a inspirare quel fumo di sigaretta non sia Filippo
Tedeschi ma lui, il protagonista, Apolloni infiltratosi nella storia.
Annuso quell’aria dolciastra
e la inalo a mia volta. Entro nel circuito. La storia narrata intraprende nuove
traiettorie. Svolta, compone piroette che, a dispetto di un calcolo binario,
sussultano e, schernendo le aspettative, deviano la rotta.
Dunque leggo di due
storie: l’una si confronta con la curiosità di chi si cimenta a vivere
intrecciando le sue ricordanze mai sopite con un presente nel quale vuol
inchiodare la sua esperienza. L’altra é un’attualità, la cui immagine rammenta
il marchingegno meraviglioso della memoria e riporta nel momento quel presente
di Filippo Tedeschi, incuneato nella corrispondenza ad un passato rinnovato nei
tanti momenti d’essere.
Filippo Tedeschi alza
la posta della sua onnipresenza. É a Roma nel presente raccontato; a Genzano
nel presente vissuto; a Lubjanka nel suo presente trascorso. Giunge a Los
Angeles, dove convive nel pensiero di Apolloni ricercatore.
Un chelante necessario.
Di lui ogni tanto si perde la traccia, ma l’ombra rimane a mantenere dritta la
rotta di un battello a due posti moltiplicati all’infinito. La narrazione cede
il posto a un intreccio sensibile di parole-riflessioni, ripreso da una
telecamera che racconta oltre la pagina stessa di un’esperienza che ha
marchiato nel sangue le esperienze successive dell’autore, spettatore e attore
al contempo. Si riconosce attraverso quelle immagini, nelle nostalgie e nelle
ironie con cui Filippo Tedeschi riprende le sue storie e le spoglia di quella
commozione che toccherebbe chiunque nel narrare di sofferenza.
Un rovello meraviglioso
nella misura reale di una merveilleuse (appellativo dato a una
bella signora eccentrica nel XVIII secolo).
Straordinaria energia
della mente. Alone tra due sponde, tra il bianco e il nero, i colori e una
parete mobile.
Attraverso la diversa
cromia Apolloni si ritrova a condividere lo spazio di mezzo; si confronta e
rivela una costanza sussultoria di tempi che rendono attuale il volo
all’indietro e prospettano nel futuro ciò che già é: una mescolanza che soffia
come mantice e in cui si rianima l’effervescente voglia di captare i movimenti
di un pensiero mai in balia del mare calmo.
Nel break even point del
viaggio tra Roma e Los Angeles, due esistenze si fondono senza opposizioni, né
contrasti. Gli incontri rammentano le posizioni vaganti di due epoche che, nell’unità,
riformulano una nuova condizione, nella quale le vicende dell’uno
interferiscono con le successive dell’altro. Quale il luogo della voce di Filippo
Tedeschi? Dove la voce del co-protagonista? Sono entrambi in un presente
sincronizzato in una gestualità che é essa stessa voce.
Filippo Tedeschi é
traccia indelebile che il suo interlocutore riconosce come chiave di volta per
dar forma alla sua traccia. Il demone eroico di un metro e ottanta che ha fustigato le ovvietà accendendo una luce
personale. Che ha giocato a dadi con la morte e ha vinto e qualche volta ha
perso. Convinto, pur senza aver mai sonorizzato una poesia ripudiata da un
guitto innamorato della sua icona allo specchio.
Non é terreno fertile
questo per chi voglia insinuare una qualsiasi circolarità di rabbia manifesta,
di dietrologia o qualunquistico incoraggiamento al pianto del poi. Quella che
si riscontra é sempre la parola che nasce come nuova stella dalla frantumazione-ricomposizione
di galassie.
La mattina di un giorno imprecisato del 1960 Filippo
Tedeschi fumava, affacciato alla finestra che dava sulla piazza della stazione.
Più che fumare mordicchiava la sigaretta, come suo solito.
Un rapporto di fisicità
implicita si stabilisce tra Filippo Tedeschi e la sigaretta. Si solidifica nelle
volute di fumo che salgono delicate nell’aria fino a confondersi con le
molecole di sudore e l’ambiente. Egli é quelle volute e nella sigaretta che
mordicchia allo stesso modo in cui morde la vita. Scout dell’avventura di
un esistere addentato, assaporato, assimilato. Trafitto dalle lame di una noia
che al presente del ricordo non gli concede più di saltellare con baldanza
quegli ostacoli.
Nell’immagine di Filippo-ebreo
errante l’autore-discepolo non concilia il segno della sofferenza della
dannazione o della repulsione ‒ troppo facile suscitare commozione – quanto
l’affermazione di un’alba incalzante oltre un grigio che scuote alla disarmante
notizia della morte dell’amico; che afferra nuovamente i colori del sole,
perché quell’orma ha oramai intessuto un profondo dialogo con il suo momento, diffondendolo nelle tappe
future come segno di un sogno che resta oltre le parole.