Nutella/Australia e l'etnia cinese a Kota Barhu │Luciano Troisio


 


La Nutella/Australia a Kota Barhu
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KualaLumpur 4settembre 2014

Sono rientrato con breve volo da Kota Barhu (capitale del settentrionale sultanato di Kelantan, confinante con la Thailandia) a Kuala Lumpur, metropoli caotica, sporca.

[Nota in calce: al baggage claim noto che il mio trolley è stato sventrato, ha perso una rotella più un bel 30 cm. di involucro e sotto appare la plastica spugnosa. So mantenere la calma (almeno due delle pillole quotidiane mi impediscono di agitarmi), mi avvio all’uscita e mostro alle poliziotte l’accaduto, mi indirizzano all’Ufficio Rotture, dove tra ammassi di valige ci sono varie dolci impiegate giovani, educate a trattare con viaggiatori inquieti. C’è una coppia di bianchi anglofoni seduti su sgabelli. Credo che i loro bagagli siano andati perduti. Lui giovane, con inizio di precoce calvizie, carezza conforta lei bella ragazzona quasi piangente. Tutto si svolge in modo civile. Muto indico il mio danno a una ragazzetta ridente in chador, chiama un altro ragazzo, arriva subito, rapida occhiata, controlla la carta d’imbarco, verifica i dati e mi dice che mi daranno un’altra valigia. Mi chiede il passaporto, si siede a un computer, pochi minuti, intanto la civile coppia anglofona se ne va, mi siedo su uno dei due sgabelli, estraggo il biglietto da visita del Dragon Inn, il mio albergo, pregando che mi mandino lì la valigia nuova. Il ragazzo mi indica il mio carrello dietro di me. Meraviglia: la valigia nuova, grigia, globalizzata proprio come le mie, gigantesca, provvista di fascetta con i miei dati come se avesse davvero viaggiato, è già sistemata sopra le altre due. Dico soltanto: ma è troppo, non ne avete una con le dimensioni da trolley? Non ce l’hanno (ne dovrò acquistare un altro). La stampante espelle un A4, consegnata assieme al passaporto, gentile sorriso di tutti. Sono passati nemmeno 5 minuti.

(Poiché la perfezione non è di questo mondo, proprio a voler essere precisini, aggiungo: la valigia ha una combinazione di quattro cifre con a fianco una serratura. Pensavo che all’interno avrei trovato le chiavi e magari un foglietto di istruzioni in ostrogoto. Nulla di tutto questo. Probabilmente già scartata da precedente più oculato passeggero).

Ma intanto io pensava a quando i bifolchi dell’Aeroflot hanno distrutto un’altra mia valigia, alla snervante attesa, alla zotica stopposa bionda scofanata dell’aeroporto Marco Polo, a tutti gli intralci burocratici accompagnati da strafottente agreste linguaggio, che mi hanno fatto un po’ precipitosamente rinunciare all’inoltro della pratica labirintica].


  Ancora qualche giorno prima del rientro, spero che mi sia utile per riflettere. È stato un errore venir via dalla divina Bali Insula Deorum dove si mangia divinamente, non fosse altro perché nell’altro emisfero il clima era ottimo, mentre qui piove quasi ogni pomeriggio e non esistono vere stagioni. Ho scelto di visitare in giugno Malacca, l’unica città malese che mi è piaciuta moltissimo, sebbene per pigrizia non abbia scritto nulla. Vale la pena di visitarla e non è mai piovuto. Da lì sono andato direttamente all’aeroporto 2, quasi interamente riservato alla compagnia Air Asia, per volare a Bali. L’Indonesia è diventata molto pignola dopo i due gravi attentati con centinaia di giovani vittime straniere, così non sono riuscito ad ottenere il prolungamento del visto (come avrei voluto). Per un attimo ho pensato di volare a Singapore, poi mi sono rassegnato a tornare nella triste insulsa Malesia dove ho scelto di visitare i mediocri sultanati della costa orientale. Le cittadine costiere sono dei semplici paesi di pescatori e anche scali dei traghetti per le isole. A suo tempo le ho visitate. Sono belle, però ne ho viste di più belle non solo nel golfo del Siam, ma anche e soprattutto nel Mar delle Andamane. Particolarmente affascinanti le isolette della provincia di Krabi, in Thailandia, non a caso meta di ambita clientela scandinava. 
Le bolse cittadine dove ho sostato sono Mersing, Kuantan, Cherating. Quest’ultima ha una spiaggia molto lunga e più che accettabile, molto frequentata dai malesi specie durante il Ramadan. Io ci sono arrivato quando le loro vacanze erano finite. Il luogo sembrava deserto, i vari complessi di bungalow vuoti, i ristoranti assai modesti per non dire miseri: non si va oltre il nasi (riso) e i mi (vermicelli). Ho notato che ogni mattina la strada principale veniva scopata, le foglie, i rifiuti raccolti con cura in sacchi neri. Insomma non posso dirne male (come vorrei), mi sono fermato una decina di giorni. Il mio albergo era un complesso di villette di 4 discrete stanze ciascuna, per un totale di almeno 80-100. Oltre a me c’erano solo altri due o tre clienti. La conduzione familiare buona. Mi permettevano di stare col computer all’interno della reception (anche perché fuori spesso diluviava per ore con tuoni e saette da impaurire, con grande allagamento). Mi hanno perfino fornito la loro password personale. Inoltre avevano anche un piccolo ristorante (descritto e magnificato nella guida Lonely) aperto dalle 9 alle 16. Naturalmente in Malesia sarebbe oltraggioso oltre che inutile chiedere uova con bacon, specie nei sultanati di Terenganu e Kelantan che sono i più tradizionalisti e conservatori, rispettosi dell’etica musulmana.
(In Malesia è molto importante la numerosa etnia cinese, che ha in mano l’intera economia e non ha nulla a che vedere con l’Islam; le ragazze cinesi se ne vanno in giro seminude, spesso bellocce, perfino sfrontate; nei loro ottimi ristoranti -che qui sono stato quasi costretto a rivalutare- si può liberamente mangiare carne di porco. La terza etnia è quella indiana).

La mattina la padrona mi preparava l’omelette con formaggio, piatto più unico che raro. Inoltre esisteva un simil-cappuccino in busta, di produzione locale, discreta imitazione di quello Nestlè, diffuso in tutta l’Indocina. E poi mangiavo dell’anguria. A mezzogiorno nulla, la sera mi ero ridotto a mangiare un piatto di spaghetti seafood niente male, in un affollato localino gestito da un londinese che parlava una lingua incomprensibile.

Salto le disavventure occorsemi per uscire dalla trappola di Cherating, dove nessun autobus passa e bisogna andare in tassì e mi hanno fatto pagare tutto il doppio, e alla fermata della strada nazionale ho aspettato in quasi disperazione solitaria (all’ombra) due ore, sempre a proposito di puntualità, ecc.  Dopo 3 ore di mediocre paesaggio costiero, privo anche di piantagioni, sono arrivato nella città (si fa per dire) capitale Kuala Terenganu.

(La Malaysia è una federazione di sultanati. Si tratta di una monarchia in cui a turno uno dei sultani è eletto re per 5 anni. Il re attuale ha 80 anni ed è stato eletto per la seconda volta).

Visti alberghetti indecenti, poi schifato ne ho scelto uno di lusso. Il personale quasi tutto femminile indossava chador completi rossi molto eleganti. Il loro atteggiamento nei miei confronti era chiaramente ostile per non dire maleducato. Mi hanno fatto pagare in anticipo due notti. Per restituirmi il passaporto e il resto hanno usato un vassoio. Non mi era mai capitato in vita mia. Ma l’hanno fatto anche con i clienti indigeni. Il bf era incluso. Uno squallore a buffet da non dire. Ho per fortuna individuato un ristorante cinese dove la sera mi hanno fatto un ottimo pollo al limone caramellato. Intanto pioveva. In due giorni ho visto solo 5 turisti bianchi. Passate le due notti (ripeto: l’albergo era lussuoso e confortevole) ho deciso di fuggire verso nord a Kota Barhu, descritta come ricca di musei, centri culturali, gare di trottole, di aquiloni e ogni venerdì campionati di uccelli canori. Naturalmente in queste zone tutte le donne indossano il rigoroso chador lungo, ti guardano con diffidenza. Ma negli altri sultanati non è così: c’è più tolleranza e parecchie ragazze non portano nemmeno il foulard.

È probabile che vi sia una ricca nomenclatura per designare i vari tipi di indumenti femminili islamici. Non sono riuscito a documentarmi.

L’albergo consigliato dalla guida era uno di quelli che sulla strada ha solo una porticina da cui si vede una scala infinita tipo piramide di Keope. Scartato immediatamente e scelto il Sabrina, dove c’era una promosi come anche negli altri limitrofi in concorrenza (pubblicizzati da vistosi display al neon e provvisti di ascensore). Qui il personale femminile della gestione mi è parso molto più gentile, sebbene abbia notato che quando scendevo nella hall per usare il computer e mi sedevo da solo sul divano, avendo l’attenzione di non sedermi vicino a donne, un paio di volte delle orripilanti clienti anziane non sexy si sono alzate dalla poltrona spostandosi più lontano (come previsto nella guida).

Kota Barhu ha vari musei; li ho visitati tutti, scalzo: piuttosto modesti. Anche la gioielleria e le suppellettili delle famiglie dei sultani, nemmeno da paragonare con il lusso e la classe vista a Bangkok: lì oro e rubini a ufalda, qui oggetti di rame opaco, pietre mediocri, tutto molto provinciale, nessuna galleria di opere d’arte antica, nessuna memoria archeologica. Nella guida avevo letto che il museo nazionale (?) ha una poderosa collezione di mobili e porcellane cinesi: nessuno dei guardiani ne sapeva nulla. Una interessante mostra temporanea era dedicata alle monete anche antiche, e banconote emesse dalle varie nazioni colonialiste, specialmente Portogallo, Olanda e Inghilterra.

[La nostra è la civiltà dell’immagine; l’Islam è la negazione dell’immagine.]

Ristoranti desolati dove ho mangiato duro pesce fritto e il solito nasi puti (plain rice), ripiegato su MDonald, poi camminando verso il nulla, scoperto una magnifica trasgressiva Bakery; più che panetteria era una favolosa pasticceria, con brioches, croissants, pastine alla crema, al cioccolato, ogni bendiddio (comprese quelle enormi tremende torte bianche che sembrano di gesso), e vero cappuccino con vero latte in vero tetrapac, cafelate e tante altre stupende varietà con aggiunta di caramello e mandorle, scritte anche in italiano. Unico neo: l’espresso, davvero nefando. Personale tutto di ragazzine carinissime in jeans molto ben indossati e foulard/chador eleganti su musetti da leziose madonnine: le vere tigrotte progressiste. Ogni mattina alle 9 ero già lì. L’unico posto dove ho visto occidentali, compresi quegli zotici imbecilli che entrano nelle cristallerie con zaini monumentali, pericolosissimi nei bruschi movimenti rotatorii e di pessimo gusto.

In centro ci sono giganteschi supermercati e centri commerciali di molti piani, piuttosto ricchi. Nel settore degli alimentari molte marche di pasta con nomi italaini, si tratta di prodotti australiani, olio Bertolli e Carapelli dai 10 euro in su. Una marca tunisina di olio si chiama Allegro. Davanti all’autentica Nutella della Ferrero/Australia non ho resistito a fotografare. Molti altri prodotti con nomi italiani, ma non autentici.   

I ristoranti consigliati avevano orari impossibili. Finalmente l’ultimo giorno, alle 16, ho imbroccato il Golden aperto: cinesi con lei bella ragazza in minigonna, educata e gentilissima. Naturalmente prezzi alti. Ho voluto visitare delle mostre di pittura e fotografia. Soprattutto le foto: di altissimo livello. Invece non sono riuscito a vedere le gare di trottole tradizionali, nè  gli aquiloni. Il venerdì, giorno di festa, sono andato a piedi a vedere la competizione di uccelli canori. Il luogo si chiama Arena, però è un campo fangoso, e pioveva. C’erano delle file di gabbie appese a centinaia. Ai margini del campo un centinaio di appassionati/allevatori. Tutti maschi. Degli specialisti stavano valutando i volatili, nel mutismo e attenzione generale. Io che mi spostavo per fotografare sono stato redarguito. Gli uccelli erano i soliti banalissimi un po’ più piccoli dei merli, grigiastri, tutti con un ciuffetto erettile in testa, come ho visto liberi in mille parti. A Bali venivano a rubarmi la frutta dal piatto. Anche il canto mi è parso assai mediocre. Invece bellissime e preziose le gabbie. Ho scattato molte foto. Poi stanco della pioggia me ne sono andato mentre seriosi personaggi prendevano nota dei risultati su tabelloni fitti di cifre, altri coprivano le loro gabbie con panni colorati. Questi mi sembravano seccatissimi, probabilmente per le scarse valutazioni ricevute dai loro tesorucci; abbandonavano la gara.

In questa città ho acquistato il volo Air Asia (50 euro) e sono tornato a Kuala Lumpur. L’aeroporto è lontano una settantina di chilometri, ci sono autobus frequenti, il biglietto per China Town costa  solo 10 ringgit, il personale femminile della biglietteria all’interno dell’aeroporto gentile e rispettoso. Invece il driver un vero bifolco.