from │la pinella
Sandra Alexis tra i jeans LiuJo* e i leggings Alessia
Marcuzzi di Gaëlle Bonheur│
E se Sandra Alexis adesso
indossasse questi jeans LiuJo Bottom Up avrebbe ancora la sua maneira de andar di bolina stretta? E,
soprattutto, questa modella, dentro il repertorio della visibilità forzata, per quanto, questa
della pubblicità, sia artefatta, nel momento in cui tutto è mostrato e la
visibilità poliziesca si fa caricatura
quasi pappagallesca, riesce allora , quando Orfeo [ il poeta e il
visionatore, intendiamo] si volta a guardarla,
a sparire e lascia l’incanto didonico tanto che, per lei, poi il
visionatore si immergerà negli inferi
del suo fantasma ? Sandra Alexis, dentro un LiuJo Bottom Up non è mai nello specchio della piattezza o del grado zero, e
nemmeno lo sarebbe dentro i recenti leggings di Alessia Marcuzzi Capsule per Gaëlle Bonheur, anche se ormai la
titolata col nome comune del suo podice, nel punctum di quella immagine di
Ferri per “GQ”, presa com’è nella spirale della Grande Gidouille, come direbbe Jean Baudrillard, ci fa vagare nell’indifferenza dello Stesso.
La puntualità di Sandra Alexis e del visionatore è quella che non la rende per
forza visibile, difatti chi l’ha vista Sandra Alexis, in via Micca a Torino, se non il poeta? Il prêt-à-porter
merita di esser dato a vedere, merita una pronta visione, prêt-à-voir, un godimento immediato, il bonheur che poi è speculare al prêt-à-jouir,
come se i leggings, di quella che fu, dal Gaudio, fatta assurgere
linguisticamente ai fasti del nome comune [→il marcuzzi],
non potessero che fatalmente, e banalmente, essere prodotti dalla Bonheur, una
sorta di scambio virtuale della trasparenza e del nome: costringere tutte
quelle che indossano i leggings di Alessia Marcuzzi , e già in virtù del suo
essersi fatta rappresentazione del suo Dasein
(tutto il reale, il suo, il nostro,
costretto nell’orbita del visuale, il suo, il nostro), a sentirsi
trasformate in nome comune, non c’è
bisogno di una doppia virtualità della realtà, è una sorta di interattività
dell’oggetto “a” che, prima fu posto in essere come immagine su “GQ”, e, poi,
virtualizzato come punctum assoluto
dell’oggetto “a” del visionatore, adesso dona un godimento immediato a chi
indossa G.Bonheur pur essendo all’oscuro
del fatto che i leggings indossati le stanno dando il prêt-à-jouir firmato proprio da quel nome comune ideato e realizzato dall’omonimo G. di Gaëlle Bonheur. Ciononostante, non essendoci più né una scena
né uno sguardo, Sandra Alexis, con i leggings Alessia Marcuzzi di Gaëlle Bonheur, in quale dualità altererebbe la
distanza? Forse, soltanto, nel doppio colluso del poeta, che, non essendo nel
cinema e nemmeno nella pittura, e nemmeno nella fotografia, è immerso nella Stimmung linguistica del suo nome, che è
questa l’interazione tattile e la relazione ombelicale primordiale che, da sola, può annullare l’immersione
cellulare, corpuscolare dell’immagine virtuale, senza ostacoli, dello schermo e
della combinazione digitale. Di certo c’è che la puntualità di Sandra Alexis non potrebbe
mai essere nel paradigma della
trasparenza, in cui osceno è tutto ciò che è inutilmente visibile, senza
necessità, senza desiderio, come se l’ordine del segreto non possa mai
costituirsi come potenza erettile dello sguardo-in
sé di Orfeo; come immagine e illusione fatale, quella contorsionista [del Circo Orfei: a suo dire] non fu mai vista dal visionatore come immagine dentro la sua
visibilità forzata e ripetuta [al Circo, appunto] e quindi non si costituì come illusione vitale, il suo destino
di immagine non è mai stato fatalmente banale, anche perché il poeta fu bravo a
non costringerne tutto il reale di allora nell’orbita
del visuale di allora; fatto questo, ci si può dare ancora al Bonheur imbragallandola, la nostra
Sandra Alexis, così segreta e illeggibile, nei leggings di chi è stata resa nome comune per il podice puntualizzato in quell’immagine su “GQ”, che, va da sé, potrebbe
essere il punctum della stessa allure
leggera e laterale, di bolina stretta, che era la puntualità assoluta di Sandra Alexis in quel fine novembre in via
Micca a Torino quando mi svelò la sua Herkunft scrivendone gli estremi sulla
quarta di copertina di “Astra”.
│*│Liù, è strano che ci sia questa
corrispondenza, per il quinconce che per Baldanders attiene a Sandra Alexis, è “sei”
e quindi rinvia all’”esagono”; Liú,
invece, per quanto possa essere “melograno”,
spesso è cognome, e quindi è speculare al nome proprio che il poeta ha reso
nome comune protocollando “il marcuzzi”; ma, soprattutto, questo Liú è lo schema verbale del “diffondersi”,
del “vagare” e quindi del “veloce” quando è nel vento che si sta camminando. Ma
dai, ma la vedete la modella di Liu-Jo,
come cammina nel vento, sembra che in qualche modo rifaccia l’allure patagonica
di Sandra Alexis, di bolina stretta, leggera in avanti e laterale; Liú, per questo, è anche, come schema
verbale, “rimanere”, “stare”, guardatela: cammina e rimane, sta, oppure “trattiene”,
“invita a rimanere” e, bontà del paradigma cinese, “lascia crescere”. Mentre
così, come se fosse un esagono, e non un pentagono come il passo a quinconce di
Sandra Alexis, ha l’andatura, a ben guardare, di bolina larga, quasi in fil di
ruota, liù è la corrente e jo , come jiāo, “dona”, “passa”, “consegna”, oppure è l’archetipo
sostantivo del “rapporto” e della “relazione”, che ha con il “diffondersi” e il
“trattenere”, il rapporto anche veloce; lo stesso jiāo,
jo,
può essere l’archetipo epiteto del “tenero”, “delicato”, “grazioso” ,
che si fa verbo per “incollare”; basta che il passo e l’accento sia più arcuato
e jo si fa “piede” o schema verbale
del “morsicare”, “innaffiare”, “catturare”. L’accento più ottuso, e per il
terzo senso di memoria barthesiana non guasta, reca lo schema verbale del “chiamare”
e del “chiamarsi”, quasi “gridare”, e Liú
se fa da cognome chiamiamola dunque, quasi un grido:”Liú” vieni ad allietare il nostro oggetto “a”, passa al meridiano, “Liú”!
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