La cousine prôneuse
de Aurélia Steiner
di V.S.Gaudio
Nel marzo scorso ricevetti o rinvenni non so dove questa
fotografia, accompagnata dal gentile invito a immaginarmi qualcosa che la
rispecchiasse; essa rimase però alcune settimane sul mio desktop, e più vi
rimaneva e più spesso la osservavo, tanto più mi risultava inaccessibile, forse
anche irredimibile anche nel più lieve dei suoi tratti fisiognomici, finché
quel compito, in sé di scarso rilievo, si trasformò in un ostacolo
insormontabile.
Poi, un giorno di fine marzo, o era già il 1° aprile, la
fotografia scomparve all’improvviso dal desktop e anche da Flickr[ "This
image is not available] con mio non poco sollievo, e nessuno - ma chi altri oltre a chi scrive e a chi la guardava sul desk? - sapeva dove fosse finita.
Quando – trascorso qualche giorno – l’avevo già quasi
dimenticata ed era arrivata la Pasqua dei cattolici della romana chiesa, eccola
riapparire di sorpresa, allegata a una e-mail trasmessa da Péronne.
Aurélia Steiner, con cui ero in corrispondenza da anni
ormai, mi comunicava che quell’immagine, allegata senza commenti alla mia
e-mail di fine marzo e a proposito della quale le sarebbe piaciuto sapere come
ne fossi venuto in possesso, raffigurava sua cugina di passaggio a Péronne,
quantunque ella stessa si chiamasse Péronne, Tille Péronne, allorché mangiava
direttamente da un barattolo lentilles cuisinées à l’Auvergnate in piedi in un
prato, che poteva essere benissimo, così continuava la e-mail di Aurélia
Steiner, non in Picardie ma “laggiù dove vivi nel Pantano Saraceno, in un posto
costantemente afflitto dalla malaria, circondato da terreni salmastri, da
paludi e da una boscaglia verde torinese impenetrabile.
In un posto dove non succede nulla, se non che tutto, come
già da secoli, va in rovina e in marcescenza, salvo ciò che è requisito dagli
affiliati della Fiscalrassi che, tra rimborsi elettorali ai partiti, cliniche
concesse in uso e controllo al Vaticano e ospedali gestiti e amministrati dagli
altri cattomassonisti di Comunione e Liberazione, e lauree patentemente
concesse da consorzi di studi foraggiati dallo Stato, continuano a regnare lì
sulla costa anziché sui monti da dove discendevano a dorso d’asino per vendere
la carbonella, le uova e le ogliarole quadarare da essi stessi artefatte”.
Ancora nei vicoli regna sempre uno strano silenzio
qui nel Pantano come in Picardie, e, scrive Aurélia,
“non è quello il luogo in cui metà della popolazione langue,
tremante di febbre dentro casa, se non gliel’hanno presa
quelli di Albidona
e della loro Fiscalrassi, seduta sui gradini o nel vano
della porta,
il colorito giallastro e le guance flosce, non come la
fisiognomia florida
di zia Lucrezia giovane puledra o mula dentro il suo
irredentismo patagonico
non delle lentilles che mangia Tille à Péronne ma forse
delle sardelline che
- scrive Aurélia- tu mi dicevi son così dentro lo Heimlich patafisico
dell’oggetto a che passa al meridiano con il fantasma del
poeta
e del visionatore, e, mi ricorda tutta questa storia della
fotografia
di mia cugina che mangia lenticchie a Péronne e Lucrezia che
aveva
come sorella la mia omonima Aurélia e come noi bambine a scuola
non conoscevamo altre realtà se non la palude del Saraceno
[o quella di Porto Vecchio in Corse, di cui narra W.G.Sebald in
“La cour
de l’ancienne école”, pur’essa costantemente afflitta dalla
malaria e circondata
da terreni salmastri, raggiunta negli anni Trenta da
un mercantile di Livorno non
più di una volta al mese per caricare tavole
di quercia già pronte sul molo,
un altro posto in cui mia cugina pare che
si recasse a mangiar lenticchie,
per questo mi pare che una volta mi disse
per telefono che da lassù
veder Roma oltre il mar Tirreno quasi sulla stessa
linea di latitudine
le procurava più di un orgasmo al giorno; dovevi sentirla,
sembrava Edward Lear, il paesaggista inglese che nel 1876 raccontava,
in un viaggio in Corse,di immensi boschi che si levavano verso l'alto
lungo vertiginosi pendii dall'azzurro cupo della valle di Solenzara, questo
mi raccontò al telefono, mia cugina la prôneuse: "da un pianoro che dominava
il colle dove ero salita, la mia vista spaziava sull'intera foresta, un teatro
naturale che scendeva per centinaia di metri, una gradinata dopo l'altra,
un teatro il cui fondale era il mare, che vedevo quella mattina e anche
la mattina dopo oltre lo sbocco della valle di Solenzara, e dietro il mare
-simile a una pennellata sulla carta- il cupolone di Roma: Dio, che gaudio!"
E poi aggiungeva quasi in estasi e con un lieve ansimare:"Ho visto anche
i carri trainati da sedici muli, scendevano per un sentiero tutto curve a gomito,
portando tronchi della lunghezza di almeno cento, centoventi piedi, oh, gaudio,
avessi visto gli uomini del carro altro che muli, mai ne ho visti, né in Svizzera,
né in Libia e nemmeno in Calabria o in Irlanda così dotati, ho sentito il loro
désir potentemente eretto corrermi lungo la schiena e prendermi a cavalcioni
di quei tronchi mentre sopra i crepacci volavano in cerchio aquile e avvoltoi,
e gli stambecchi fissavano increduli tutto il mio gaudir, fringuelli e lucherini
saltellavano a centinaia- che uccelli!- in mezzo alle fronde, quaglie e pernici
facevano il nido sotto i cespugli più bassi, e ovunque le farfalle mi svolazzavano
attorno. E non è per niente vero, Aurélia, così disse Tille, che gli animali en Corse,
quantunque siano di taglia alquanto piccola, come Napoleone, ce l'abbiano ridotto,
anzi come spesso accade sulle isole e negli uomini di taglia piccola, come Napoleone,
ce l'hanno, te lo garantisco quant'è vero che mi chiamo Tille...Tille Potine, enorme,
non esagero se dico che qui si va a caccia per la pulsione fallica!"]
sembrava Edward Lear, il paesaggista inglese che nel 1876 raccontava,
in un viaggio in Corse,di immensi boschi che si levavano verso l'alto
lungo vertiginosi pendii dall'azzurro cupo della valle di Solenzara, questo
mi raccontò al telefono, mia cugina la prôneuse: "da un pianoro che dominava
il colle dove ero salita, la mia vista spaziava sull'intera foresta, un teatro
naturale che scendeva per centinaia di metri, una gradinata dopo l'altra,
un teatro il cui fondale era il mare, che vedevo quella mattina e anche
la mattina dopo oltre lo sbocco della valle di Solenzara, e dietro il mare
-simile a una pennellata sulla carta- il cupolone di Roma: Dio, che gaudio!"
E poi aggiungeva quasi in estasi e con un lieve ansimare:"Ho visto anche
i carri trainati da sedici muli, scendevano per un sentiero tutto curve a gomito,
portando tronchi della lunghezza di almeno cento, centoventi piedi, oh, gaudio,
avessi visto gli uomini del carro altro che muli, mai ne ho visti, né in Svizzera,
né in Libia e nemmeno in Calabria o in Irlanda così dotati, ho sentito il loro
désir potentemente eretto corrermi lungo la schiena e prendermi a cavalcioni
di quei tronchi mentre sopra i crepacci volavano in cerchio aquile e avvoltoi,
e gli stambecchi fissavano increduli tutto il mio gaudir, fringuelli e lucherini
saltellavano a centinaia- che uccelli!- in mezzo alle fronde, quaglie e pernici
facevano il nido sotto i cespugli più bassi, e ovunque le farfalle mi svolazzavano
attorno. E non è per niente vero, Aurélia, così disse Tille, che gli animali en Corse,
quantunque siano di taglia alquanto piccola, come Napoleone, ce l'abbiano ridotto,
anzi come spesso accade sulle isole e negli uomini di taglia piccola, come Napoleone,
ce l'hanno, te lo garantisco quant'è vero che mi chiamo Tille...Tille Potine, enorme,
non esagero se dico che qui si va a caccia per la pulsione fallica!"]
e quindi non avevamo idea della mancanza di prospettive
cui era condannata la nostra vita in questi posti resi
letteralmelmente
inabitabili dal paludismo e dagli ombroni della Fiscalrassi,
al pari di altri bambini che vivevano in contrade più felici
e non all’ombra(del gaudio) di Albedonë o d’Alisandrë,
imparammo anche a scrivere e a fare di conto, e questo e
quell’aneddoto sui Borboni, sui Savoia, sugli ombroni e
l’ascesa della “Mamma, sal’in
tavola!” e della caduta dopo
l’elevazione del “Babbo, com’il bobbo cacabbo il trabbo?”
Di tanto in tanto guardavamo il mare dal bastione, quando
la sera c’era la luna piena in lontananza sullo Jonio che
non
aveva niente di Atlantico; così scrive Aurélia: non ho di
fatto
altro ricordo di mia cugina, tanto che ora pare che si
chiami
Tille Potine, che è a “Potinière” che rinvia, e quindi anche
alle
sardelline di cui alla tua zia e a questo patefatto mullar
cui sembrano dedite tutte le femmine che sentono prudere
le con in un habitat intriso di acque salmastre, paludi e
boscaglie verdi impenetrabili torinesi; è pur vero che nella
tagcloud di Wordle che è venuta a randomizzarsi dalla Bataille
de Saint-Joseph che è omologa alla “Bataille des Jésuites”,
solo che questa è autoriflessiva e soggettiva e quella
decantata
a Péronne, au jour de Saint-Joseph, è un manufatto speculare
sì
ma oggettivo, tanto che si vede che mia cugina a Péronne,
che mangia
lentilles e quindi fa sottentrare le sardelline della libido
che pulsa nella fase anale,
c’è venuta per fare delle branlettes, e tu che la vedi che passa
al meridiano
della branlette non vedi che questo suo désir, questo suo
stupefatto mullar
a mano , per
quanto è la sua bocca e i suoi denti che ti incantano
e di fatto non ho altro ricordo di lei”
così Aurélia Steiner conclude la sua e-mail: “se non che il
nostro
maestro a scuola chinandosi sui suoi quaderni le diceva
sempre:
Ce que tu écris mal, Tille!
Tille semble,
sembra, une « Tille », che
è un “pagliuolo di poppa”,
et comment veux-tu qu’on puisse te lire?
Ta même signature, Tille, c’est le tillage, « la stigliatura »…
le paraphe-Tille ou
Tillage( che poi intendevo, dice Aurélia, sempre come
“le paraphalle-tille”, un “parafallo” da stigliare, da
scapecchiare…)…
C’est ça que
tu feras quand tu seras plus grande: le tillage?
E guardava, questo maestro con un accento fortemente nasale,
il suo “lentillage” così forte.
Lentillage e tillage, è così, caro il mio poeta Saraceno, ti stavo
dicendo sopra
che nella tagcloud di Wordle è saltata la “é” di “potinière” e la “è” di “Péronne”,
che nella tagcloud di Wordle è saltata la “é” di “potinière” e la “è” di “Péronne”,
tanto che l’una si è fatta “potinire” e l’altra “pronne”,
come se la potinière,
che sicuramente mia cugina è, fosse pure e però una “cucurbita di
lambicco”,
un “potin” per "distillare" la “potine”, la sardellina, e così
tu la vedi ancor
più zoccola e “péronnaise”, come dite laggiù? “Pugnettara”,
mi pare;
e “pronne” che fa il verso e spettegola à “prône”, “spiegazione”,
“predica”,
e tu che la guardi in quella foto sei il “prôner”, il “magnificatore”,
l’”esaltatore”,
il “decantatore” di mia cugina (la) potinière!
D’altronde, “pronne” è lei stessa che, decantando le “lentillage”(mangia
con quella
bocca, il naso e le mani le lentilles…), la “stigliatura”, à
Péronne, topos della branlette
decantata, che cosa sta magnificando, decantando, esaltando se
non il suo essere lì
à Péronne per la Bataille de Saint-Joseph?
Con quella bocca, poi, è così che me la ricordo, è una
grande « parolaia », une grande
Pronne, ovvero “prôneuse”,
Tille la “piagnona”, la Prôneuse des
lentilles, ou des potines?
FLeggi anche: la-bataille-de-saint-joseph
in particolare:
La potinière à
Péronne
fait la volée de coups