I MISTERI DEL GIARDINO DI BOSCOMARENGO
Prima Parte
La Giraffa Glenda
Una sera la stella cometa
6F6I6 volle fare un dispetto alla Luna che stava ancora riposando prima di prendere
servizio. Le passò vicinissima e con un colpo della sua coda spelacchiata la imbrattò tutta con le sue scie, al punto
che quando si presentò al suo posto, in alto nel cielo, la Luna era tanto
sporca che non si vedeva più dalla Terra.
La Luna era molto
dispiaciuta e dagli occhi neri le cadde qualche lacrima. I pesci per la
tristezza sputarono l'acqua che avevano in bocca e grosse bolle si alzarono
verso il cielo coprendo tutte le cose di una patina umidiccia. Gli uccelli del
cielo sbatterono forte le ali andando in su e in giù, sollevando nuvole di
polvere dappertutto. Le rane e i rospi non smisero più di fare il loro
rumore che si sparse dappertutto. Gli
uomini si resero conto che era successo
qualche cosa di stramo e di triste e che il mondo non era più lo stesso di prima. Tutti si chiedevano che cosa
potevano fare senza capirci niente.
Ma da quelle parti
arrivò, tranquillamente passeggiando, una bellissima giraffa dal lunghissimo
collo.
La Giraffa Glenda si alzò
in piedi sulle alte gambe, stirò il collo al massimo dei suoi muscoli e tanto
lo stirò che raggiunse il cielo. Con una dolce carezza della sua grande e lunga
lingua, pulì così bene la faccia della Luna che brillò più bianca di prima.
Da quella notte la Luna e
la Giraffa diventarono amiche: la Luna spandeva un poco più di luce su Glenda che, a sua volta, stava
sempre attenta a pulire ogni pur piccolissima macchiolina che comparisse sul viso dell'amica.
Dal tempo di
quell'amicizia, gli uomini gli animali
le piante della Terra furono più felici .
Plinio il Leone bianco
Mentre stava passeggiando
per la savana dove era nato un anno prima, Plinio il leone bianco pensava ai
suoi fratelli che erano tutti marroncini come il caffelatte e alla mamma che dopo averli partoriti e averli addestrati
li aveva lasciati, ormai autonomi. Era lì che stava annusando la base di un
arbusto, quando sentì un rumore che non aveva mai sentito. Non si preoccupò
molto, ma mise in atto tutte le strategie che aveva imparato per essere pronto
ad ogni occasione. Il rumore terminò.
Plinio lasciò il posto e
si mise a guardare l'orizzonte, poi il cielo perché sentiva che si stava
avvicinando un temporale estivo. Era contento perché da tre giorni soffriva
molto della calura. Ecco di nuovo il rumore. Si allarma, alza le orecchie,
allunga la testa, stira il corpo. E'
pronto, ma il rumore non si sente più. Rimane fermo girando la testa lentamente
verso destra, poi verso sinistra. Vede una cosa che non aveva mai visto: un
oggetto che avanzava
giallo con sopra qualcosa
che si muove. Veniva verso di lui. Allungò di più il muso e annusò l'aria per
capire meglio. Sentì un odore acre. Poi risentì il rumore che diventava sempre
più forte. Si sedette sulle zampe posteriori sempre puntando il muso verso
quella cosa sconosciuta.
Ad un tratto si distrasse
per una nuvola di farfalle. Gli piacevano e gli piaceva rincorrerle per gioco,
attento a non colpirle con la possente zampa. Quella piacevole distrazione fu
fatale: quella cosa, che gli uomini
chiamano jeeppone, gli era accanto e una grossa rete lo aveva
imprigionato. Plinio non sapeva che cosa fare se non dare strattoni, tentare di
rompere la rete con le zampe, mordere. Dal jeeppone spararono una fucilata e
Plinio si sentì subito stordito, lanciò un ruggito di sorpresa e rabbia,
stramazzò a terra.
Si risvegliò dentro una
gabbia. Era ancora sottosopra, e triste perchè non sapeva dove fosse,
soprattutto non poteva andare e fare quello che voleva. Mentre veniva
sballottato sentì un fruscio vicino alla gabbia: erano le sue amiche farfalle,
tutte e tante altre che si affacendavano sul lucchetto della gabbia per
aprirlo. Ci riuscirono proprio quando il treno, così lo chiamano gli uomini,
prese una curva stretta e lunga. Le farfalle avevano aperto anche la porta del
vagone e così Plinio potè saltare fuori dal treno con le sue amiche. Si fermò
un attimo, scosse la testa roteandola tutta, poi con passo più sicuro ritornò
in direzione della savana dove continuò a giocare con le farfalle che erano
diventate tutte bianche.
Sulpicio il Serpente giallo
Sulpicio se ne stava arrotolato dentro la
gabbia di vetro che puzzava a tal punto che ogni tanto cacciava la testa sotto
il corpo per respirare meglio. Quando non sapeva che fare strisciava sino alla
ciotola che conteva del liquido nerastro frammisto di paglia e pezzetti di
legno. Non era molto soddisfatto della sua situazione, soprattutto perché non poteva correre lungo il terreno, tra il
fogliame del sottobosco cercando di catturare un riccio una lucertola un coniglio.
Era stanco, aveva bisogno di sgranchirsi i muscoli, di cambiare aria. Sapeva
che se fosse rimasto lì ancora per molto, sarebbe stato assalito dalla
tristezza se non addirittura dalla
malinconia giacché erano mesi che non mangiava ed era diventato tutto magro
e giallo a trattini neri. Passavano
persone a guardarlo velocemente, a leggere il cartellino della sua razza, delle
sue abitudini e del suo nome, da così tanto tempo passavano che non ci faceva
più caso.
Un giorno l'inserviente che puliva le gabbie,
lasciò il vetro alzato per cambiare la paglia e mettere dell'acqua nella
ciotola, mentre una signora con un
cappellino di piume di struzzo e una
borsetta gialla osservava attenta e a distanza di sicurezza. Era la moglie del
padrone. Sulpicio pensò che questa era la sua occasione. Raccolse tutte le
forze, si arrotolò come una fionda e si
lanciò verso la borsetta della signora. Si stampò su un lato appiattendosi tra le pieghe della
pelle sintetica, diventandone un tutt'uno.
La signora finì il suo giro e rientrò, in
macchina, verso casa. Sulpicio stava incollato alla borsetta in perfetto
silenzio. Quando la signora arrivò a casa, Sulpicio si lasciò cadere per terra
e si acquattò tra delle pietre e del fogliame marcito, dove si costruì la tana.
Era diventato un grandissimo serpente tutto giallo con qualche lineetta nera e
stava bene, era contento delle passeggiate, delle mangiate di topi, delle
bevute sotto la vasca dei pesci rossi.
Sulpicio visse là per 150 anni.
Una notte la figlia della signora, da tempo
morta, uscendo di casa inciampò in un grumo giallo e nero. Con un urlo la donna
scappò a chiamare il cameriere che, presa una paletta, mise quella sporcizia in
un sacco nero e lo gettò nella pattumiera.
Robin il Ragnetto rosso
Robin, un minuscolo ragnetto tutto rosso si
era costruito la sua casa in un bel salone di una villa di campagna, in alto a
destra entrando, sulla verticale tra due pareti e il soffitto. Un piccolo buco
perfettamente rotondo da cui entrava ed usciva con regolare precisione ogni
giorno all'ora del tè. Alle cinque, non per servirlo agli animaletti che si
trovavano sui muri o per l'aria, ma per far capire che lui comandava in quel
salone, che tutto doveva passare attraverso il suo consenso. Gli altri animali
volanti dai moscerini alle piccole mosche,
ai ragni, ai più colorati insetti avevano accettato il suo dominio.
Quando Robin, alle sei precise, rientrava nel buco rotondo, volevamo dire nella
sua casa, anche tutti gli altri abitanti del salone rientravano nelle loro
abitazioni.
Un giorno Robin, stanchissimo di una lunga ed
inutile caccia, si addormentò oltre le cinque e non uscì. Stupiti, gli altri
animaletti misero la testa fuori dalle tane per vedere la situazione e non
vedendo Robin, uscirono disordinatamente, felicissimi di non dover sottostare
al piccolo ragnetto rosso. Girarono volarono sporcarono mangiarono succhiarono,
fecero una baldoria mai vista ed erano talmente fuori di sé che non si
accorsero che Robin era uscito dalla sua casa e li stava osservando. Era
furioso. Era soprattutto stupito di quel disordine e decise di rimettere le
cose a posto.
Camminò sino alla tenda che ombreggiava la
sala, si fermò e cominciò a richiamare
quegli indisciplinati che tentarono la fuga da ogni parte verso i loro rifugi.
Spariti che furono, Robin fu
soddisfatto, si asciugò la bocca con le lunghe gambe e si rimise in marcia
verso la sua casetta. Ma proprio in quel momento, una tempesta terribile come quella
che aveva sentito narrare da un grande poeta inglese, si abbattè su di lui. In
brevissimo tempo, si sentì stordito, vacillante, ubriaco di quella strana acqua
e si sentì cadere.
Precipitò dal muro al pavimento dove un mostro
scuro lo succhiò in un battibaleno. Gli altri animaletti, sentito tanto
tremendo rumore, misero fuori la testa e
videro tutto quanto. Molti di
loro, anche se non erano amici di Robin, avevano gli occhi lucidi di lacrime,
perchè avevano capito che il tempo del tè era finito.
Bela la Tartaruga dispettosa
La tartaruga si era
trovata inaspettatamente nella casa. Guardandosi attorno, le piacquero
i colori, azzurro e
rosso, i ninnoli che immobili la guardavano con benevolenza, specialmente la ballerina bavarese che si
muoveva attorno ad uno specchio e l'automobilina blu un pò impacciata perché
era anche un temperalapis. Anche la televisione, coi suoi occhi a mandorla, le
sorrise e Bela la tartaruga decise di restare lì, in quella casa che era poi
una stanza e si andò a piazzare sotto la poltrona del padrone di casa.
Le venne data subito
dell'insalata freschissima, assieme con del cocomero e i pomodori. Bela
guardava questi pezzi, li toccava con la punta del muso e non li mangiava, li
lasciava marcire e tentava di fuggire verso la luce. Era troppo giovane per capire
che doveva mangiare, se voleva diventare una bella robusta tartaruga verde,
marrone, giallobianca.
No, non ne voleva sapere
di mangiare, anche se portata all'esterno in un piccolo recinto
con tanta sabbia; rifiutava ogni
cosa, solo spiluzzicava un formaggio molle e giallino, ma sembrava volesse
fuggire sia il sole che la rugiada.
Si pensò di farla star
meglio in una parte del giardino, riconvertita appositamente, con
spazi di sole, spazi di ombra e spazi per ripararsi sotto la sabbia.
Niente. Bela non mangiava
e continuava a tentar di fuggire.
Una notte, riuscì a
scavalcare, mettendo in campo tutte le sue forze forse aiutata da un riccio
che abitava lì, il
muretto che cingeva i suoi 4 metri quadri. Cominciò a camminare veloce nel
prato, superò gli alberi, le rose inglesi, il lastricato di tufo, i vasi
colorati delle piante grasse, s'infilò
per il cancello e fu fuori.
Si fermò un momento, ma
non potè riprendere fiato che sentì una
gigantesca ruota. Bela restò sulla strada asfaltata, senza aver mangiato e
raggiunto la luce.
Clio la Biscia fifona
Non sapeva da quanto
stava lì, a ridosso di un muretto confinario, vicino a un tubo nero , nella terra umida. Clio era una biscia bianca
punteggiata di nero, lunga 250 metri, con
una lingua rossa, molto curiosa. Tanto curiosa che iniziò ad interessarsi del
tubo nero da quando vide che si muoveva e ogni tanto sputava acqua. Credeva che
fosse un animale esotico. Ne era invidiosa. Molto, tanto che volle avvicinarsi
a lui per conoscerlo meglio. Il tubo nero non si mosse. Lo toccò con la lingua.
Niente. Lo ritoccò. Ancora niente. L'invidia saliva. Lentamente si avvicinò di
più e lo toccò con la sua pancia rigonfia. Niente. Allora decise di stargli
accanto per vedere che cosa facesse, che cosa fosse accaduto se lo avesse
imitato. Si allungò, si divincolò, si ritirò e si distese, stette fermissima
come lui, non mangiò e non bevve come lui, tanto che dopo una settimana era
diventata uno stecchino vicino al grosso tubo nero, imperterrito. Era tanto
magra che un'edera novella la scambiò per un pezzetto di legno e le si
avvinghiò tutt'attorno, portandosela via in alto, sopra un albero. Clio, sempre
più impaurita, stava immobile sul tronco da dove vide il giardino e il tubo
nero da un'altra prospettiva: dall'alto. Benché stanca per il digiuno, Clio era
curiosa contenta e tremebonda di vedere l'erba, i fiori, le formiche, le
lucertole, i pesci della vasca dall'alto, come il tubo nero che continuava a
rimanere fermo.
Un giorno vide il padrone
di casa andare verso il rubinetto, svitare un aggeggio dorato e tirare con
forza. Con stupore vide che il tubo nero si muoveva dalla sua tana e strisciava
verso il padrone che, preso il tubo nero con le mani, lo arrotolò ben bene e lo
gettò nella pattumiera.
Clio finalmente capì. Si
lasciò cadere dall'albero e guardinga ritornò alla sua tana, contenta che il
tubo nero non ci fosse più, contenta di poter ricominciare a bere a mangiare a
dormire vicino al suo muretto, in santa pace.
Bilbo il Riccio permaloso
Era abituato ad uscire
tutte le sere, dopo la cena nella sua bella tana. Usciva a fare una lunga
passeggiata nelle sere d'estate, attraversando la strada asfaltata piena di
traffico, di occhi luminosi che oramai aveva imparato a vedere e schivare
allungando le sue zampette.
Una sera, dopo aver
mangiato e bevuto 100 pinte di scura irlandese decise di uscire lo stesso per
respirare l'aria fresca della notte. Capì di essere strano e diverso dalle
altre sere, quando cominciò a vedere sei
e poi otto e poi mille occhi luminosi. Pensò che forse il traffico era
aumentato, infatti era sabato e sapeva che gli uomini uscivano per divertirsi.
Invece di attraversare il solito fosso che lo portava al ciglio della strada
asfaltata, girò a destra e s'incamminò lungo il margine interno del prato e in
men che non si dica perse l'orientamento.
Non capì più niente e
tutta la testa gli ribolliva. Era completamente ubriaco.
Si ritrovò di fronte ad
un cancello, lo attraversò e si ritrovò tra un folto e scuro giardino con
qualche luce qua e là che gli servì per tentare di andare diritto e non a
tentoni. Sentì delle voci gentili e sorridenti che lo rassicurarono. Continuò
ad avanzare. Le voci cessarono. Si fermò.
Nessun rumore se non il
tintinnare di non sapeva che, dentro la sua testa. Avanzò lento e inciampò su
di un piattino bianco pieno di miele e birra.
Ancora birra, non ne
poteva più. Schivò l'ostacolo e siccome gli parve di vedere un buco si diresse
colà.
Si trovò dentro uno
spazio larghissimo con della sabbia, del terriccio e qualche ciuffo di erba
selvatica. Il posto era tranquillo e fresco. Si fermò, scavò la terra e si mise
a dormire.
Il giorno dopo si svegliò
tardissimo e uscendo dal buco sentì che il sole bolliva le zolle e di aver
sete. Cercò di raccapezzarsi per trovare qualche cosa che tagliasse la sua
sete. Trovò una pozza d'acqua che ondulava secondo l'andare e il venire del
venticello. Si portò al bordo dell'acqua e cominciò a bere incurante di quello
che accadeva d'intorno. Tanto aveva sete che bevve tutta l'acqua sino a che non
vomitò tutta la birra della notte precedente e
l'acqua appena ingurgitata. Stava
tanto male che si arrovesciò sul dorso, la pancia all'aria e non s'accorse che
era già nella bocca di un gatto fulvo che se lo portò lontano da quel bel
giardino.
Glauco il Pavone triste
Fuggiva da un allevamento
di pavoni che riforniva una grande industria di accessori per cappelli. Il
pavone scappò a zampe levate dai guardiani che lanciavano funi e cappi per
prenderlo e riportarlo indietro. Scappò senza pensare e badare a niente.
Glauco si svegliò di
soprassalto. Aveva sognato. Era ancora nella gabbia e lo spiazzo
dell'allevamento era silenzioso e illuminato come ogni sera. Glauco ripensò al
sogno e cominciò ad osservare le reti delle gabbie, le beccò per saggiarne la
robustezza, si appoggiò con tutta la sua forza per storcerle. Si era messo in
mente che il sogno fosse una premonizione, un segno e volle seguire questo
pensiero.
Glauco era decisissimo:
voleva scappare. Si mise al centro della gabbia, quasi sull'attenti, ritirò
verso il corpo le penne coloratissime: dal rosso all'azzurro al verde al rosa
al bianco al magenta, lucidissime e stiratissime. Compresse al massimo il
torace e allungando il collo s'infilò nello spazio rettangolare del reticolo e
cominciò a spingersi in avanti. Prima la testa, poi il collo, uno sforzo
maggiore per il corpo, poi le cosce, quindi le zampe. Era fuori. Libero.
Si guardò attorno. Non
vide nessuno e nessuno lo vide. Glauco sapeva che si poteva nascondere tra i
giardini delle case e di diresse là con la velocità di un missile. In un
nanosecondo era davanti al cancello socchiuso, entrò e si fermò per riprendere
fiato. Ce l'aveva fatta. Andò verso la
vasca delle carpe giapponesi e si dissetò. Alla luce della luna e dei fanali
stradali si vide. Inorridì. Riguardò incredulo. Era vero. Le sue bellissime
piume non avevano più alcun colore, erano tutte grigie nere e stropicciate. Non
aveva speranza e non sapeva che erano state le reti della gabbia a fargli
perdere i colori di cui era orgogliosissimo.
Glauco smise di bere.
Avanzò nel giardino togliendosi una penna ad ogni passo. Era diventato un'altra
cosa. Tristissimo si lasciò cadere sui mattoni del forno a legna.
Lucilla la Lucertola nera
Lucilla era una bellissima lucertola nata nel
quartiere più elegante di Londra. Parlava 150 lingue e aveva girato il mondo
per poi fermarsi nel giardino che l'aveva incantata e che aveva scelto come sua
residenza estiva. Sarebbe stata addirittura felice se le altre lucertole,
troppo provinciali e paesane, non l'avessero snobbata, non degnandola di uno
sguardo o di una bella passeggiata al sole lungo la parte rocciosa del prato,
sotto gli aceri rossi. Lucilla era sempre sola e andava cercando un bel lucertolo
per potersi accasare e mettere al mondo tanti lucertolini e lucertoline, ma non
trovava nessuno che la salutasse, che la trovasse attraente. Eppure era
bellissima ed aveva avuto una educazione aristocratica, con i migliori grilli e pavoni e barbagianni. Si sentiva mancare il
fiato e non voleva andare via da quel giardino che amava, anche per non darla
vinta alle altre comari lucertole che intanto figliavano a più non posso.
Una sera, stava girellando tra le pietre e i
tufi annoiandosi della solitudine, quando sentì un brusio dietro le spalle,
come un soffio, come una frase. Si voltò e vide un bel lucertolo che la stava
guardando e dagli occhi si capiva che era attratto dalla sua bellezza e che
voleva fare la sua conoscenza. Lucilla, da signora, mise avanti patti chiari.
Va bene il corteggiamento e l'amore, ma bisognava che il lucertolo prendesse le
sue responsabilità e si accasasse con
lei. Egli accettò e andarono a costruirsi una bellissima villa tra grosse rocce
che separavano le Austin. Dopo meno di un'ora depose 3750 bellissime uova,
candide come la neve, perfettamente
ovali. Era felice e stava lì a guardarle, quando una mano enorme le prese tutte. Era una bambina che era venuta a
visitare il giardino e che vedendo quelle stupende uova pensò di infilarle una
nell'altra per fare delle collane, che andò a vendere in città.
Mir la Farfalla russa
L'avevano battezzata con un nome impegnativo,
Mir. Si ricordava benissimo la grande cerimonia piena di canti ed incensi nella
cattedrale di San Giorgio. Quando divenne più grande si sposò con un bellissimo
farfallo del Reno che però la lasciò vedova presto, stroncato da una broncopolmonite.
Per non ricordare i luoghi della tristezza era
volata verso il Sud ed era capitata nel giardino per caso. Aveva svolazzato un poco, ma non contenta
della fragranza, se ne era andata via. Dopo 350 anni eccola di nuovo nel giardino
che i padroni avevano reso più rigoglioso e colorato di fiori profumatissimi.
Adesso Mir era contenta di essere là e volava
su e giù, andava da un cespuglio rosa ad un grande albero pieno di spine e di
fiori bianchi. Torneava tra le bacche del piracantha per poi saettare verso le
rugose d'Austria, per adagiarsi sul ciclamino del mesenbriantemo. Si sentiva proprio bene.
Una sera, il sole non ancora basso, vide una
farfalla dai colori fosforescenti, in cima ad uno stelo verdissimo; si
avvicinò, mandò i suoi segnali invisibili e non udibili per dire alla compagna
che voleva fare amicizia. Costei non rispose e rimase immobile. Ritentò alcune
volte segnando il cielo e l'aria di volute che erano parole speciali per la
futura amica. Non ebbe nessuna risposta. Quella farfalla restava ferma anche al
venticello che si era alzato.
Mir, mentre continuava a volare intorno, si
accorse di una cosa che la preoccupò. L'amica aveva perso un'ala che era caduta
alle radici del fiore. Mir si addolorò perché ormai amava quella farfalla
mancante di un'ala e che sapeva destinata alla morte. Volteggiò ancora per tre
volte in segno di omaggio e di amore e poi si lasciò andare sul pelo d'acqua
della vasca di marmo rosso di Turchia, dove rimase per sempre, bellissima e
attraente.
***
Analisi della
Giraffa Glenda
Se volessimo fare un’analisi fantastica di un personaggio,
non che debba essere per forza fiabesco, e così scomporlo in “fattori primi”
allo scopo di rintracciarvi gli elementi per la costruzione di nuovi “binomi
fantastici” come faceva Gianni Rodari, e per inventare altre storie, così
disse, prendiamo la Befana[i].
E nei Misteri del
Giardino di Boscomarengo cosa prendiamo? Tanto per cominciare la
Giraffa Glenda che , all’analisi, cosa ne possiamo cavare che siano gli oggetti
della libido ubiquista? Intanto questi sarebbero i fattori primi:
- la stella cometa 6F6I6
- la luna
- la giraffa
Glenda .
Rispetto alle funzioni di Propp la Giraffa Glenda ha la funzione
di fornire il mezzo magico alla luna per quella stella cometa che entrò in scena con l’infrazione e il
danneggiamento, la terza e l’ottava funzione di Propp, così l’eroe si salva, è
la luna, dopo che la Giraffa Glenda ha attivato anche la diciannovesima
funzione di Propp, la rimozione della sciagura.
Altri potrebbero usare non solo la stella cometa per un’altra funzione ma
anche gli altri fattori primi. La Giraffa Glenda di Ebt è tra la quattordicesima e la diciannovesima
funzione di Propp; noi potremmo usare la Giraffa per dare un morso alla stella
cometa in modo che al danneggiamento, l’ottava funzione, fatto sulla luna
corrisponda un danneggiamento fatto sull’antagonista; poi, la luna, prima di
ottenere la trasfigurazione, la trentesima funzione, imbratta la stella cometa
con un liquido speciale che ha in un suo mare e punisce così l’antagonista.
Non pretendo con
questo di aver fatto un’analisi completa della Giraffa Glenda, anche perché
abbiamo dimenticato di verificare quant’è alta e come fa ad allungare il collo
fino a pulire la luna. Ma così facendo, si capisce come l’analisi fantastica
riporti l’immaginazione a lavorare su dati semplici: una parola, l’incontro-scontro
tra due parole, tra un elemento dell’aria e un altro terrestre; ci offre le
opposizioni elementari su cui l’immaginazione articola le sue storie, mette in
moto ipotesi fantastiche, si apre all’introduzione di “chiavi”, ad esempio,
visto che si è accennato alla Befana di Rodari, la Giraffa Glenda non è che non
potrebbe essere davvero Ashley Montana che, come oggetto fantastico, ci pulisce
la luna, il nostro oggetto a, e, via,
ci fa un po’ lo “shummulo”!... Tanto che, poi, l’analisi sarà, per forza di
cosa e di désir, “fantasmatica” e le
opposizioni elementari che articolano
una storia o una fiaba, tra il reale e il correale saranno quelle a mettere in moto ipotesi fantasmatiche: l’esercizio di
questa tecnica creativa connetterà i “cattivi pensieri”, l’”andatura” e “ciò che
entra dall’orecchio” non solo con la “statica assoluta del soffio iperdulico”[ii]
– che è quello che fa funzionare la contro-storia
di Morselli ma anche, se vai a vedere, la contro-fiaba di Ebt – ma permette
l’attrazione tra i “due falli del Super-Io”, il “Remedium” che non viene nei campi attorno all’oggetto a e il “debito simbolico”- che vige nell’industria
culturale: è il “buco reale”-, non viene mai colmato o estinto.
[i] Cfr.
Gianni Rodari, Analisi della Befana,
in: Idem, Grammatica della fantasia,
Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1973.
[ii] E’ un
paragrafo del saggio di V.S.Gaudio su Morselli: L’eterotopia dislocata. La libido ubiquista delle Mule Irlandesi e la
Finestra di Morselli, in “Morselliana”, a cura di Alessandro Gaudio,
“Rivista di Studi Italiani”, n.2 /2009, online dal settembre 2010: F
rivistadistudiitaliani.it
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