v.s.
gaudio
L’Homerotopia
Homer & Langley
di E.L. Doctorow
La cosa che più mi turba del “Diario” di Witold Gombrowicz, mi riferisco
al volume I (1953-1958)[1], è
che non viene indicata alcuna data, escluso l’anno e il nome dei giorni della settimana,
lunedì, martedì, giovedì, venerdì, etc.
Per esempio, comincia il 1955: la prima pagina ha in
alto il numero XIV e sotto a sinistra: Sabato;
poi c’è XV e Domenica; infine a XVI e
a Lunedì abbiamo una annotazione in
cui si apprende che “In questo preciso momento arriva l’anno nuovo, il 1955” . Manca, è ovvio, il
calendario.
Nella cucina di Cinoc[2],
invece, ci sono quattro calendari delle poste con foto in quadricromia:
1972: I Piccoli
Amici: un’orchestra jazz composta di marmocchi e il pianista, con gli
occhiali e quell’aria di estrema serietà, ricorda un po’ Schroeder, il giovane
prodigio beethoveniano dei Peanuts di Schultz;
1973: Immagini
d’Estate;
1974: Notte
nella Pampa: tre gauchos che
schitarrano intorno a un fuoco;
1975: Pompon e
Fifi: una coppia di scimmie gioca a domino. La femmina fuma un sigaro che
tiene tra pollice e indice del piede destro.
A casa di Homer, il fratello cieco, una chioma alla
Franz Liszt, e di Langley Collyer, che quando “partì per la guerra, i miei
genitori lo salutarono con una cena in suo onore, una cena in famiglia”[3],
durante tutta la loro vita, in cui la vista deduttiva di Homer si integrava con
il principale progetto di Langley, la raccolta dei giornali allo scopo ultimo
di creare un numero unico ed eterno che andasse bene per qualsiasi giorno[4], e la
sua Teoria dei Rimpiazzi, non appare mai un calendario.
Le immagini delle cose
Se non appare mai un calendario, “le immagini delle
cose non sono le cose stesse” (H&L, p. 215), le macchine da scrivere, il
tavolo, la sedia possiedono la sicurezza di un mondo solido, dove gli oggetti
occupano uno spazio, dove non esiste il vuoto sconfinato del pensiero
inconsistente che non porta ad altro che a se stesso.
“Non resta altro che il contatto con la mano di mio
fratello a dirmi che non sono solo”(H&L, p. 215), scrive Homer.
Non potrebbe mai scrivere, Homer, che: “La camera di
Cinoc; una camera alquanto sporca, che dà un po’ sul muffito, un parquet pieno
di macchie, i muri tutti scrostati. Sullo stipite della porta è appesa una mezuza, quel talismano da appartamento
ornato di tre lettere contenente versetti della Torah. Contro la parete di
fondo, sopra un divano letto coperto da una stoffa stampata a fronde
triangolari, dei libri rilegati o n brossura sono appoggiati obliqui uno contro
l’altro su una piccola mensola e, accanto alla finestrella aperta, si trova un
leggìo a gamba lunga di costruzione leggera che ha, davanti, un tappetino di
feltro largo quel tanto da permettere a una persona di starci in piedi. Vicino
alla mensola, a destra, c’è sulla parete un’incisione tutta tarlata, intitolata
la Calebute: mostra cinque bambinetti
nudi che fanno le capriole, accompagnata dalla seguente sestina:
A voir leurs soubresauts bouffons
Qui ne diroit que ces Poupons
Auroient bon besoin d’Ellebore:
Leur corps est pourtant bien dressé
Si, selon que dit Pytagore,
L’homme est un arbre renversé[5]?
Homer, in verità, a differenza di Gombrowicz, non sa
nemmeno che giorno è oggi: non c’è lunedì o domenica, al limite arriva il terzo
giorno, il mattino del quarto giorno, quando conta i giorni della presenza in
casa del loro amico gangster Vincent; quando non c’è il calendario, c’è
comunque sempre l’orologio a muro (“ascoltai il ticchettio dell’orologio della
cucina”: H&L, p. 131), anche per lui ci sono le stagioni, l’estate in cui i
genitori li portarono i fratelli in vacanza in una specie di comunità religiosa
in riva a un lago, da qualche parte nel nord dello Stato; i primi giorni
d’autunno in cui “ faceva ancora abbastanza caldo e così, per festeggiare
la nostra liberazione, andammo a sederci su una panchina dall’altra parte della
strada, sotto i rami del vecchio albero che sporgeva oltre il muro del parco”
(H&L, p. 134 ).
La musica, un solco nella libido di
Homer
Il giornale unico che Langley sta progettando è
speculare all’assenza del calendario, il tempo non è più formalizzabile se la
pulsione scopica è ciò che entra dall’orecchio.
L’oggetto a di
Homer è come la voce che sente il desiderio dell’Altro e che, se non può essere
seguito come vorrebbe Baudrillard, è del tutto privo di Super-io, tanto che
Homer, giacché non li vede, non potrebbe mai avere i cattivi pensieri che
abbiamo nei confronti dell’Altro, quando l’angoscia(-φ) sale al livello dello
stadio fallico.
Tra voce e orecchio, che sia Liszt o un po’ Schroeder,
l’afflato di Mary Riordan o di Jacqueline Roux è dall’anale all’ideale che
traccia, tra angoscia e potenza dell’altro, un solco nella libido di Homer che,
non vedendolo, non potrà mai averlo nell’eterotopia dell’esclusione dell’Altro
che è la sua casa e in cui sta vagando.
È questo che dice Homer a Jacqueline: “Forse nel suo
francese c’è musica, e così lei crede che tutte le lingue siano musicali. Io
non sento alcuna musica quando parlo” (H&L, p. 210); nel senso che non è
vero che “la mia casa è un’attrazione più grande dell’Empire State Building”.
L’oggetto a com’è che
entra in casa?
Fosse stato così, non avendola mai vista, e, adesso,
non potendola nemmeno più sentire, e il mondo era cecità e sordità, il sesso
non esiste, sente battere il suo cuore, ricorda le sue lacrime, ricorda di
averla stretta fra le braccia, ma a Dio, Homer, non può perdonargli la mancanza
di significato, perché, se non c’è il calendario, dimmi tu se nel “manicomio”
che è casa Collyer dov’è che si trova lo specchio, che, essendo stato
l’occhio,è quello che organizza il mondo in spazio: l’occhio che vede nello
specchio “il riflesso del mondo che esso stesso ha in sé. Per dirla tutta, non
servono due specchi contrapposti perché siano create le riflessioni all’infinito
del palazzo degli specchi. Basta l’occhio e uno specchio perché si produca un
dispiegamento infinito di immagini che si riflettono a vicenda”[6]: non
essendoci né l’occhio né uno specchio né, tantomeno, un calendario, l’oggetto a nel rapporto con il desiderio com’è e
quand’è che entra in casa?
Insomma, Mary Riordan, Lissy, Jacqueline Roux, quando
le guardava, Homer, vedeva l’espressione assolutamente stupefacente per il
fatto che era impossibile leggervi se esse erano tutte per lui o tutte
rivolte all’interno?
“Mi ha permesso di toglierle gli occhiali. E poi i
brividi di riconoscimento mentre ci sdraiamo sul letto. Quella donna che
conoscevo appena. Chi eravamo? Il mondo era cecità e sordità, non esisteva
niente al di fuori di noi. Non ricordo il sesso… Ho sentito battere il suo
cuore. Ricordo le sue lacrime sotto i nostri baci. Ricordo di averla stretta
fra le braccia e aver perdonato a Dio la mancanza di significato”(H&L, pp.
210-211).
“Le toccai i capelli e sentii svolazzare le morbide
ciocche. E quando le presi il volto tra le mani – il bel volto magro con il
mento deciso, le tempie dal battito lieve e regolare, il naso sottile e diritto
e le labbra morbide e sorridenti – Mary mi prese la mano e la baciò” (H&L,
p. 51).
L’immagine inafferrabile
Il punto di desiderio e il punto d’angoscia sono al
massimo della coincidenza. Eppure, il desiderio, lo sappiamo, non è senza
oggetto, c’è sempre un punto zero, come correlativo dell’a piccolo del fantasma, che appare e che dispiegandosi nell’intero
campo della visione è fonte di una sorta di quiete, come se ci fosse una
sospensione della lacerazione del desiderio, e, allora, il punto d’angoscia,
quando non c’è il fascino e il feticismo dello sguardo, dov’è che sospende la
lacerazione del desiderio?
Il soffio, prima del buio eterno, è questo che si
produce dallo zero di a.
Non si dimentichi che Lacan segnalò in un seminario:
“l’occhio bianco del cieco [è] come l’immagine rivelata, e al contempo
irrimediabilmente nascosta, del desiderio scopofilico. Anche l’occhio del
voyeur appare all’Altro per quel che è: impotente. È proprio questo a
permettere alla nostra civiltà di inscatolare ciò che lo sostiene [ci si
riferisce all’oggetto a] in forme
diverse, perfettamente omogenee ai dividendi e alle riserve bancarie che esso
impone”[7].
L’oggetto a, che non è speculare, è
inafferrabile nell’immagine, ed è così che guarda Homer, il suo bianco
dell’occhio guarda Mary, Julia, Jacqueline, e cosa vede? Il suo oggetto a, che è ciò che manca, vede l’immagine
inafferrabile.
Ciò che entra nell’orecchio e il
viaggiatore che aveva perduto la mappa
Che cosa entra in casa se non il mondo e la guerra e
l’automobile, i crimini e le catastrofi che, lo sappiamo, fanno il loro
ingresso in scena gioioso e ufficiale. Questa totalità del Bene e del Male ci
oltrepassa ma non c’è nessuna intelligenza delle cose al di fuori di questa
regola fondamentale: “Di fronte a noi stanno eventi di tutti i tipi,
imprevedibili. Sono già stati, o stanno per arrivare. Non possiamo fare altro
che puntare in qualche modo un proiettore e mantenere l’apertura telescopica su
questo mondo virtuale, nella speranza che alcuni di questi eventi abbiano la
cortesia di lasciarsi riprendere”[8].
Langley porta tutto in casa e Homer imprevedibilmente punta in qualche modo un
proiettore e mantiene l’apertura telescopica su questo mondo virtuale; scruta
il cielo e tira giù ologrammi, non logogrammi, lui tenta di spiegarli o di
piegarli, ma non è possibile, come non è possibile spiegare lo spettro fisso di
una sella o le variazioni del rosso.
L’alterità radicale, che, prima che la mano del
fratello non possa più dirgli che non è solo, è già arrivata, ma si capisce
perché,perché Homer è per lei che scrive della sua vita di fronte al parco,
della sua storia degna di quelle persiane nere, della sua casa, che è
un’attrazione più grande dell’Empire State Building.
E Jacqueline Roux, cronista di “Le Monde”, è una
estraneità in fin dei conti inintelligibile, il significato della forma e della
singolarità dell’evento dell’altro; è l’irruzione di ciò ch proviene da un
altro luogo, è la seduzione dell’estraneo e la devoluzione dell’estraneo, e per
Homer, che non ha mai avuto la propria ombra, è necessario più di ogni altro
essere umano essere seguito da qualcun altro:per lui, “il viaggiatore che aveva
perduto la mappa” (H&L, p. 104), è assolutamente urgente che qualcuno si
metta sulle sue tracce, e, così facendo, Jacqueline Roux le cancella e lo fa
sparire.
Ma allora il protagonista cieco che cosa può
conoscere, nominare, designare?
La casa e l’oggetto cedibile
La casa, come luogo che ci sfugge, attraverso cui noi
sfuggiamo a noi stessi?
La casa che non è il luogo del desiderio, o
dell’alienazione, ma della vertigine, dell’eclissi, dell’apparizione e della
sparizione, dello scintillio dell’essere o del soffio dell’essere?
La casa che è quell’indifferenza sovrana dell’Altro
nei nostri riguardi, dove l’alterità sovrana dell’Altro può irrompere anche se
non l’hai visto o non lo vedrai?
La casa, in cui fa irruzione un oggetto, una persona,
un sogno, una donna, un deserto, un mondo, la cui evidenza è folgorante, pur
essendo ciechi?
La casa, che è il luogo del nostro segreto, di tutto
ciò che in noi non è più dell’ordine della verità? Che non è, come nell’amore,
il luogo della nostra somiglianza, né come nell’alienazione il luogo della
nostra differenza, né il tipo ideale di ciò che siamo, né l’ideale nascosto di
ciò che ci manca, bensì il luogo di chi ci sfugge, attraverso cui noi sfuggiamo
a noi stessi?
Questo può voler dire che non ci sia nessun posto in
cui questo luogo dell’Altro trovi alloggio al di fuori dello spazio reale, cioè
a casa Collyer, nel nostro caso, e di Homer,in particolare, questo soggetto
che, se avesse potuto vedere l’ombra o riflettersi nello specchio, avrebbe
visto che l’oggetto a, quando non può
essere visto, non può nemmeno rendere speculari lo stadio anale e quello
scopico, per cui il soggetto, beh, è evidente, è allora che cede, o ha ceduto,
alla situazione.
Pertanto è nell’ordine della funzione di oggetto
cedibile che l’oggetto anale interviene nella funzione del desiderio; quando
questo ha tutto il peso della casa con tutti gli oggetti collazionati, è allora
che l’oggetto cedibile ha la figura di Jacqueline, ed è allora che c’è stato
uno schianto, l’intera casa ha tremato.
Dov’è Langley?
Dov’è la mano di mio fratello, ciò che entra
nell’orecchio?
Il significante che faceva entrare la verità nel mondo
prima di qualsiasi contatto in quale vuoto è precipitato?
Un po’ più sotto lo stadio anale, c’è il capezzolo o
qualsiasi oggetto a cui afferrarsi; un po’ sopra, avrebbe dovuto esserci lo
stadio fallico,ma quando lo stadio scopico è stato fulminato, l’oggetto a ha una misura quantica piccola,
l’incertezza diventa significante[9], ma –
giacché è fuori da ogni pulsione scopofilia – il Super-io è nell’aphanisis di a, se capite quello che voglio dire capirete perché c’è stato uno
schianto, l’intera casa ha tremato.
Dov’è Langley?
Dov’è mio fratello, il mio Super-io?
Non restava altro che il contatto con la mano del mio
Super-io a dirmi che non sono solo.
Il calendario
E il calendario?
Il calendario che non c’è ti fa vivere “dentro una
xilografia giapponese,come quelle appese dietro la scrivania nello studio di
mio padre, con le esili figurine stilizzate che sembravano ancora più piccole
sullo sfondo delle montagne coperte di neve,oppure che avanzavano su un ponte
di legno, riparandosi dalla pioggia sotto gli ombrelli” (H&L, p. 90) anche
quando la guerra entra in casa e “il progetto dei giornali sembrava
perfettamente al passo con i tempi. Tutti i giorni,mattina e pomeriggio,
Langley leggeva i quotidiani con attenzione febbrile” (H&L, p. 93).
Anche quando Langley “calcolò quanto avevamo speso in
un mese e, dimenticando di aver prescritto colazione e cena fuori come metodo
per migliorare il mio stato d’animo, decise di cucinare a casa” (H&L, p.
113).
Anche quando “mio fratello aveva staccato la spina e
buttato il televisore in un angolo, e da allora non avremmo più guardato la Tv
fino a una decina d’anni dopo, quando gli astronauti sbarcarono sulla Luna. Non
dissi mai a Langley che anch’io, a mio modo, potevo vedere lo schermo
televisivo: lo vedevo come una macchia oblunga appena più chiara dell’oscurità
dominante. Lo immaginavo come l’occhio di un oracolo che guardava dentro casa
nostra” (H&L, p. 119).
Anche quando “squillò il telefono [e] ero seduto
accanto al tavolino della radio, nello studio di nostro padre. Sussultai. Non
ci chiamava mai nessuno. (…) Una voce maschile disse: “parlo con
l’arcidiocesi?”,”No, questa è la residenza dei Collyer” dissi” (H&L, p.
120).
Anche quando “Langley mi raccontò che, mentre girava
per la casa con una mano sopra lo squarcio dell’orecchio, Vincent trovò uno dei
nostri elmetti militari e lo indossò. E poi gli venne voglia di specchiarsi, e
gli uomini portarono giù lo specchio da terra, uno specchio girevole da
signora, dalla camera da letto di mia madre” (H&L, p. 129).
Anche quando “mi accorsi che Vincent si preparava a
partire, cominciai a spaventarmi. Volevo che se ne andasse, certo, ma in che
modo avrebbe deciso di dirci addio?” (H&L, p. 130).
Anche quando “per una settimana lavorai con i colori a
dita per bambini, tubetti di tintura appiccicosa che Langley mi faceva spalmare
su fogli di carta per vedere se imparavo a distinguere i colori al tatto.
Naturalmente non imparai” (H&L, p. 139).
Anche quando “che giorni felici erano quelli, quando
Langley aveva quasi dimenticato perché si era messo a dipingere. Lo sentivo
lavorare al cavalletto, fumando e tossendo, e io fiutavo il fumo delle
sigarette e l’odore della pittura a olio e mi sentivo di nuovo me stesso”
(H&L, p. 141).
Anche quando “quel giorno si teneva una dimostrazione
contro la guerra sul Great Lawn di Central Park, e noi decidemmo di darvi
un’occhiata. La sentimmo molto prima di arrivare sul posto, da principio la
voce roca amplificata che mi pulsava nelle orecchie, anche se non si capivano
le parole, e poi gli applausi, un suono non amplificato, più piatto e aperto,
come se l’oratore e il pubblico si trovassero in due territori diversi:una
vetta, forse, e una vallata” (H&L, p. 148).
Anche quando “Langley mi disse che Alba e Tramonto
erano carine,ma di scarso spessore intellettuale. Portavano gonne lunghe,
stivali e giacche con le frange, fascette e bracciali di perline. Erano più
alte di Connor e sembravano quasi sorelle” (H&L, p. 152).
Anche quando “quella bizzarra congiunzione astrale
durò quasi una settimana” (H&L, p. 153).
Anche quando “stava arrivando il freddo, eravamo già
in novembre? Non ricordo. Ma nessuno di loro riusciva ad accettare l’inverno.
(…) Intuii che stavano per partire quando prepararono una grande cena da
consumare tutti insieme” (H&L, p. 163).
Anche quando “la casa, a quel punto della nostra vita,
era ormai un labirinto di viottoli pericolosi, pieno di ostacoli e vicoli
ciechi. Se c’era luce a sufficienza era possibile farsi strada negli zigzaganti
corridoi di balle di giornali, o trovare un varco infilandosi di traverso fra
mucchi di oggetti vari – parti meccaniche, cassette degli attrezzi, quadri,
pezzi di carrozzerie di automobili, copertoni, sedie accatastate, tavoli sopra
tavoli, testate di letti, barili, pile di libri crollate, lampade
d’antiquariato, pezzi di mobili dei nostri genitori, tappeti arrotolati, mucchi
di vestiti, biciclette- ma occorreva il dono naturale di un cieco, quello di
percepire la posizione degli oggetti dall’aria che li circondava, per andare da
una stanza all’altra senza ammazzarsi” (H&L, p. 166).
Anche quando “il giornale dei suoi sogni non poteva
limitarsi ai fatti di cronaca: l’edizione unica per tutti i tempi richiedeva un
resoconto dolorosamente categorico delle tendenze abituali della nostra specie.
Così si scontrò con il grosso problema organizzativo di setacciare annate di
quotidiani, in cerca di episodi salienti e attività immutabili” (H&L, p. 174).
Anche quando “cerco di raccontare la nostra vita in
questa casa negli ultimi anni (…) il tempo mi sembra una deriva, una sabbia
mobile. E la mia mente gli va dietro. Mi sto logorando. Sento che non ho l’agio
di sforzarmi in cerca della data precisa, della parola giusta.” (H&L,
p.183).
Anche quando “la primavera seguente estinguemmo
l’ipoteca. Come mi sembra d’aver già detto, Langley decise di farlo di persona”
(H&L, p. 189).
Anche quando “mentre cercavo di addormentarmi [una
notte] mi venne in mente una frase di Langley. ‘ogni cosa viva è in guerra’
aveva detto. Pensai alla riduzione dei miei sensi, all’idea terrificante che la
mia coscienza, espandendosi, stesse lentamente soppiantando il mondo al di
fuori della mia mente, e mi domandai se fosse possibile che stessi diventando
progressivamente ignaro della realtà della nostra situazione, della sua
gravità, grazie a un’insensibilità che mi metteva al riparo dalle sue peggiori
manifestazioni visive e sonore” (H&L, p. 207).
Il contro-spazio e l’eterotopia multipla
a New York City
Quando la casa è un contro-spazio, come lo intende
Foucault[10], in
cui si può realizzare tutta la perfezione simbolica del mondo tutto intero, la
casa come un luogo reale fuori da tutti i luoghi, dentro New York City, di
fronte al Central Park ma senza che lo spazio della città abbia la cronologia
del calendario, allora si è negli interstizi delle parole degli uomini, nello
spessore dei loro racconti o anche nel luogo senza luogo dei loro sogni, nel
vuoto dei loro cuori, insomma è la dolcezza delle utopie di Homer ma dentro
un’utopia che non ha un tempo determinato se non la vita stessa, un tempo che
si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni, ma senza che
il calendario determini le coordinate di questo spazio quadrettato e
ritagliato, con zone luminose e zone buie, la casa Collyer come un
contro-spazio reinventato dai fratelli come un luogo reale fuori da tutti i
luoghi, come se fosse un giardino, un cimitero, un manicomio, una casa chiusa,
una prigione, un motel, una eterotopia multipla[11], tra
eterotopia di deviazione ed eterotopia biologica, ai margini e dentro Central
Park, dentro New York ma non dentro il suo calendario amministrativo;
l’eterotopia multipla dei Collyer non è in relazione col tempo, non è un teatro,
né una fiera, anche se ad essa rinvia per gli oggetti eterocliti che contiene;
non è un’eterotopia di eternità, come il museo e la biblioteca, anche se ha
aspetti dell’uno e dell’altra, ma irride l’eternità perché sta cadendo a pezzi;
accumula sì il tempo ma non per cancellarlo quanto per farne un’implosione
libidica; non è nemmeno un’eterotopia di passaggio o di trasformazione, forse
permette ad alcuni una momentanea rigenerazione ma non è né un collegio, né una
caserma, né una prigione se non per chi la possiede. Ha, però,
dell’eterotopologia, questo principio di Foucault: il sistema di apertura e di
chiusura che la isola nei confronti dello spazio circostante.
Come in ogni eterotopia, a casa Collyer non si entra a
piacimento: ci si entra o perché si è costretti (come nelle prigioni,
evidentemente) o perché ci si è sottomessi a dei riti, a una purificazione.
Quando vi entra la guerra, o vi fa ritorno, o quando
la realtà che sta fuori non è nell’illusione creata dal contro-spazio, allora è
come la nave, perché la civiltà o New York come civiltà senza navi è come i
bambini i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare
o quando sono usciti hanno chiuso a chiave la camera da letto e allora i loro
sogni si inaridiscono, e lo squallore della polizia e della burocrazia prende
il posto dell’assolata o omerica bellezza dei corsari.
L’eterotopia multipla di casa Collyer è come la nave
che naviga senza sestante, al timone Homer non segue rotte che siano dentro lo
spazio quadrettato del Reticolato
rapportatore Aquino [o dentro le carte marine in bianco che riproducono la
rete dei meridiani e dei paralleli in proiezione di Mercatore come per esempio
nei dodici fogli di Position plotting
sheet, pubblicati dall’Ufficio Idrografico degli Stati Uniti][12],
d’altronde è in un contro-spazio in cui la risoluzione temporale del progetto
di Langley per il Giornale Universale Onnicomprensivo non implica il
calendario.
“La mia oscurità e il mio silenzio sono più profondi
dell’abisso marino cantato dal poeta” (H&L, p. 191).
E Cinoc?
E Cinoc?
Cinoc esercitava uno strano mestiere, faceva
l’“ammazzaparole”, mentre altri redattori del dizionario Larousse erano sempre
alla ricerca di parole e significati nuovi, lui doveva eliminare tutte le
parole e tutti i significati caduti in disuso, “quando dopo cinquantatré anni
di servizio andò in pensione, aveva fatto sparire centinaia e migliaia di
attrezzi, tecniche, usi, costumi, motti, piatti, giochi, soprannomi, pesi e
misure; aveva cancellato dalla carta geografica decine di isole, centinaia di
città e di fiumi,migliaia di capoluoghi cantonali; aveva rispedito nel loro
anonimato tassonomico centinaia e centinaia di tipi di vacche, specie
d’insetti, di uccelli e di serpenti, pesci un po’ particolari, varietà di conchiglie,
piante non del tutto simili, tipi speciali di legumi e di frutti; aveva fatto
svanire nella notte dei tempi legioni di geografi,missionari,entomologi, Padri
della Chiesa, letterati, generali, Dei & Demoni”[13],
come dire che Cinoc, quel tocco, quello svitato, aveva potuto cancellare chissà
quante parole dai giornali accumulati a tonnellate in casa Collyer, tanto che
fu allora che, al di là dell’oceano, dove poteva essere Linhaus, ci fu uno
schianto, l’intera casa Collyer tremò?
L’eterotopia homerica e l’eterotopia
langleyana: strutture, archetipi e schemi verbali
L’eterotopia metropolitana dei Collyer per questo
poteva essere sia il sintema della nave che quello della miniera, la caverna,
sostanzialmente ha sempre lo schema verbale del Confondere[14], da
cui “discendere”, “possedere”, “penetrare”, e vi operano i principi di analogia
e di similitudine.
La cifra è più profondamente quella della chiusura,
tra “dimora” e “culla”, tra “cofano”, il Model T della Ford, raddoppia nella
sala da pranzo la struttura mistica, e, “arcano” fino alla bellezza
commestibile se non all’angelus di Dalì, che è sempre nel segno della “dimora”
e della “barca”, un habitat come mezzo di trasporto nel tempo della caverna
adorabile, un luogo chiuso è sempre un’”isola” in miniatura dove il tempo
sospende il volo.
L’eterotopia homerica è più dentro la struttura della
viscosità e dell’adesività antifrastica, ha il riflesso dominante “digerente”
con derivati tattili, olfattivi e gustativi, quantunque i derivati motori
ritmici e le cooperanti musicali siano sotto il riflesso della dominante
“copulativa”.
La casa, così, è più isola o caverna, per quanto ci
sia stata musica quando l’archetipo epiteto era “in avanti”, il “futuro”;
quando l’epiteto si fa tanto profondo da divenire “nascosto” e il “discendere”
è lo schema verbale, al sintema dell’isola e della caverna,o, se vogliamo,
della culla e della tomba, corrisponde l’archetipo sostantivo “la donna”, che
è, appunto, speculare alla dimora, ed è Jacqueline Rour, la musa, che tira
dentro qualcosa di terribile a New York City, l’erba bagnata di Central Park e,
cosa ancora più terribile, dice a Homer che Central Park “è sprofondato nel
punto più basso della città. E poi è pieno di stagni, pozze e laghi, come se
stesse lentamente affondando” (H&L, p. 194), un parco sommerso, una
cattedrale della natura sommersa dentro una città sopraelevata, insomma con lo
schema verbale antifrastico del Discendere, come la “dimora”, la “caverna” (o
la “miniera”), la “tomba” e la “culla”.
L’eterotopia langleyana non può che avere lo schema
verbale del Confondere, che è lo schema verbale del regime notturno e mistico
del fratello, ma lui lo abbina allo schema verbale del Distinguere, tra
“separare”, “mescolare” e “salire”, parte dall’antitesi polemica, che è nella struttura
diurna ed eroica, ma finisce nell’adesività antifrastica e sensoriale del
fratello. La sua dominante è di posizione, ma la cooperazione a distanza
(vista, audio fonazione) fa sì che i suoi sintèmi, afferenti alle armi, alla
corazza, al recinto, siano commutabili, inizialmente, dalla dominante
copulativa, notturna, del fratello, come se all’”occhio del padre” (struttura
schizomorfa e diurna), che non c’è più, subentrasse il sintèma notturno e
drammatico, prima, della “musica” e, poi, definitivamente, dell’ “isola”, o la
“culla”, la “barca” o la “caverna”, che sono simboli mistici.
La geometria del tempo e la madre del
plurale
Il calendario appartiene al dominio geometrico del
tempo; il nostro calendario gregoriano, con la sua divisione duodecimale, fa
appello ai riferimenti lunari: ecco perché nell’eterotopia dei Collyer non
appare, per via di uno schema verbale, Ritornare, che,come il “danaro” e la
“luna”, o la “ruota”, sono archetipi sostantivi delle strutture drammatiche.
Fosse stato Ritornare lo schema verbale
dell’eterotopia metropolitana,anziché Discendere o Possedere, essendo dal lato
della “luna”, che è “la madre del plurale” ed è l’archetipo della misurazione,
avremmo avuto la comparsa del calendario e, per questo, un’altra eterotopia.
Comunque sia, vedete come mancano le due feste del
ritorno, il Natale solare e la Pasqua lunare, e mancano anche le tre ore del
giorno di Omero: aurora, mezzogiorno,
crepuscolo.
Il calendario, che ha la ciclicità delle strutture
sintetiche e drammatiche della storicizzazione e della progressione, è in
qualche modo virtualizzato o collassato nel progetto schizomorfo del giornale
universale e atemporale di Langley, in cui lo schema verbale del Distinguere
(Separare/Mescolare; Salire/Cadere) deve, per farsi mistico in virtù di Homer,
essere realizzato con lo schema verbale del Confondere, in cui tutto discende e
penetra verso il “centro”, la “sostanza” della “caverna” o della “miniera”.
L’implosione del movimento circolare e dei ritmi,è che
l’ordito che, se andiamo a vedere, c’è nell’archetipo sostantivo del nome
“Collier”, che, canadese o francese che sia, è sempre nell’ordine della
“collana” fino a che si faccia “capestro”: la tessitura, l’ordiri, il cominciare, l’exordium
è bloccato, il va e vieni della spola sul telaio per tessere cosmico si fa
fuso, ma fuso della totalità temporale, terrestre tesoro della tenuta che un
bel giorno ha perso il ritmo segreto del divenire.
Senza ruota, eccolo il Model T immobilizzato nella
sala da pranzo, le quattro ruote, cioè i fratelli e i genitori, la ruota del
calendario, l’emblema circolare o sferico dell’archetipo del ciclo, il Model T
senza le quattro fasi della luna.
Dentro l’immobilità del proprio nome, tra “Collier”
(“collana”, “capestro”) e “Collyer”[15]
(“miniera”), i soli schemi verbali dallo schizomorfo Salire/Cadere di Langley
al Discendere di Homer, la “collana-casa” tra l’“occhio del padre” (regime
diurno) perduto e la notte o il “recipiente-microcosmo” della madre (regime
notturno) persa.
La temporalità di casa Collyer non ha gli aspetti
tecnici dell’attività umana, l’intreccio interattivo tra i fratelli è dentro
uno schema in cui, mancando il calendario, che afferisce all’aspetto tecnico,
ci sono, come aspetto formale, delle “sequenze temporali” ingenerate dagli
aspetti informali dei “cicli”.
Ecco perché nella sua lingua, la lingua di Homer, che
la sente tra “gesto interattivo” (informale) e “tono di voce” (formale), non ci
sono aspetti tecnici.
Questa deprivazione tecnologica, questo smontare dentro
casa, si pensi al Model T messo in sala da pranzo senza ruote, o
all’accatastamento dei giornali per quel giornale eterotopico senza calendario,
combina quelli che Edward T. Hall chiama SMP (Sistemi di Messaggio Primario)
secondo un informale schema protettivo della territorialità.
D’altra parte, lo specifico grado di distanza che
formalizza l’SMP dell’“interazione” di Homer è sempre nella forchetta dell’Accostato (da 8 a 12 pollici , tra 20 e 30 centimetri ) e del Molto accostato (tra 3 e 6 pollici , da 7,5 a 15 centimetri ): si va
dal molto confidenziale, come sussurro intelligibile, al tenue sussurro, al
segretissimo, con qualche variante verso il Vicino
(tra 12 e 20 pollici ,
tra 30 e 50 centimetri )
più che altro all’esterno, dentro New York City.
[1] Cfr.
Witold Gombrowicz, Diario, Volume I
(1953-1958), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004.
[2]
Cinoc, che è il Sinosse, Sinok, Sinotch, Chinoch, Chinosse, di Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, trad. it.
RCS Rizzoli Libri, Milano 1984, da cui verrà tratto il passo del Capitolo
LXXXIV Cinoc,2, nella traduzione di Dianella Selvatico Estense.
[4] Visto
che c’è dentro Cinoc per i calendari delle poste in cucina, è da dire che anche
nella cantina dei Gratiolet, in cui varie generazioni vi hanno accumulato
rifiuti e scarti, che nessuno ha mai riordinato né smistato, vi sono pile e
pile di giornali scompagnati: L’Illustration,
Point de Vue, Radar, Détective, Réalitées, Images du Monde, Comoedia,
Paris-Match, Historia (cfr. Georges Perec, op. cit.: Capitolo XXXIII, Cantine,1).
[5]
Georges Perec, La vita istruzioni per
l’uso, trad. cit.: capitolo
indicato alla nota 2.
[6]
Jacques Lacan, Le palpebre di Buddha,
in Idem, Il seminario Libro X, trad.
it., Einaudi, Torino 2007, p. 242.
[7]
Jacques Lacan, La voce di Yahweh, in
Idem, Il seminario, Libro X, trad.
cit.: p. 276.
[8] Jean
Baudrillard, Il teorema della parte
maledetta, in Idem, La trasparenza
del Male, trad. it., Sugarco edizioni, Milano 1999, p. 121.
[9] Cfr.
V.S. Gaudio, L’eterotopia dislocata. La
libido ubiquista delle mule irlandesi e la finestra di Morselli, in Morselliana, a cura di Alessandro
Gaudio, “Rivista di Studi Italiani”, anno XXVII, n. 2, dicembre 2009, on line
al seguente indirizzo: rivistadistudiitaliani.it
[10] Cfr.
Michel Foucault, Le eterotopie [1966],
in Idem, Utopie Eterotopie, trad. it.,
Cronopio, Napoli 2006.
[11]
Nell’eterotopia multipla (o, quantomeno, a doppia struttura, cioè a piena
struttura circadiana), dove non esistono le estensioni economiche della
tecnologia o che sono, quantomeno, interrotti dagli schemi protettivi della
territorialità, il problema amministrativo con la Con Edison (l’azienda
elettrica) rinvia dalle virtù tecnico-creative (mai accese, non attuate) di
Langley (nato il 3-10-1885, che sembra che fosse Laureato in ingegneria) a
quelle di Edison, il cui genio inventivo straordinario lo rese titolare di 1200
brevetti riguardanti, oltre le attività elettriche, le costruzioni e, non ci
crederete, le estrazioni minerarie che, come un boomerang, rinvia alla
“miniera” di “Collyer”.
[12]
Sembra che Homer Lusk Collyer (6-11-1881; 21-3-1947) fosse addirittura laureato
in diritto di navigazione. Ma, nonostante questo, pare che non siano stati
rinvenuti, nell’incredibile groviglio di mobili, oggetti, giornali, libri e
parti meccaniche, “un goniometro, specie di rapportatore di legno articolato,
che dicono appartenuto all’astronomo Nicolas Kratzer; una ‘marinaretta’ –
compagna del marinaio – ago magnetico che segnalava il nord, sostenuta da due
festuche di paglia sull’acqua di una boccia mezzo piena, strumento primitivo antenato
della bussola vera e propria che, munita di una rosa dei venti, comparve solo
tre secoli dopo; un servizio da scrivania navale, di fabbricazione inglese,
completamente smontabile, che offre tutto un assortimento di cassetti e ribalte
allungabili”. Cioè quegli oggetti emersi qua e là dal cianfrusagliume nella
cantina della signora Marcia, di cui narra Georges Perec, op. cit.: Capitolo XCI Cantine, 5.
[13]
Georges Perec. Op. cit.: Capitolo
LXXXIV Cinoc, 2. Dalle venti pronunce elencate da Perec per “Cinoc”, che, in
gergo, sta per “svitato”, “tocco” quando viene chiamato “Sinoque”, si arriva a
“Linhaus”, passando per Kleinhof, Klajnhoff, Kleinhof, Klinov, Szinowcz,
Kheinhoss, Kinoss.
[14] Ci
si sta riferendo all’archetipologia generale di cui a Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario,
trad. it. Edizioni Dedalo, Bari 1972.
[15] Come
per “Cinoc” di Perec,le varianti del cognome Collyer vanno da Collier a Coller,
da Collard,a Calder, a Colliar, Colleir, fino a Koller se non Kohler (che, in
tedesco, è “carbonaio”), ma che, per il sigaro di cui alla scimmia del
calendario in cucina da Cinoc, ci fa pensare a Herman Kohler che nasce nel
1857, come il padre dei Collyer, e che è nel Census plan di Chicago nel 1880
come “cigar maker”.
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L'Homerotopia è apparso online la prima volta su "lunarionuovo"
in: Americana: E.L.Doctorow, insieme a un testo di
Alessandro Gaudio: "La fantasia esausta di Doctorow":