La tiatraounga cancareja dei poeti orientali
del sud
Pranzando l’altro giorno al mio abituale ristorante sulla
costa jonica degli ombroni ammâšcânti[la-leggenda-delle-ntrocchje-ammascanti·il-kamasutra-equino-di-giovanna-i], dove fanno una Tiatraounga Annamita veramente squisita, fui costretto a sorbirmi
anche un poeta di mia conoscenza[i],
il quale non fece altro che difendere il suo ultimo capolavoro da una serie di
stroncature che sembravano Il Libro dei
Morti tibetano o forse anche i Sutta
del Canone dell’Asino di Mia Nonna dello Zen.
Tracciando un tenue parallelo fra i suoi versi e quelli di
Caproni, e inveendo contro i critici a pagamento della Confindustria e di
Bilderberg, e quindi a lui stesso associati,
con eloquente furia pitagorica, anche se non è di Metaponto ma poco ci
manca, il poeta trangugiava frattanto una Tiannamita anche lui.
Io, s’intende, non potevo fare altro che porgere orecchio,
darmi un’aria compunta e assicurargli che la frase, “i versi di questo poeta
sono molto vicini al sostantivo della sua presunta funzione senza la “o”,
poteva anche interpretarsi in svariate maniere. Specialmente a tavola. Mi
sembrava, non dico una necessità, ma quasi un obbligo. E che cazzo!
Poi, d’un tratto lo vidi sollevarsi dalla sedia per metà o
intero, ammutolire, annaspare freneticamente con le braccia e quindi afferrarsi
la gola. Si era fatto bluastro in viso, poveretto, e non era stato in spiaggia
ad abbronzarsi, di quella sfumatura di turchino che, invariabilmente, fa
pensare al colore archetipo di alcuni poeti del Golfo di Taranto per via dell’aria
salubre che quivi si respira.
Più tardi, tornando a casa per la Traversa Q, che mi fa
pensare sempre al famoso Q di
cui ho riferito in Il Marcuzzi[il-marcuzzi],
della mitica via del Lutri, mi chiesi se il medico d’Alisandra, il cui nome è
ormai celebre, quale inventore di quella efficace manovra che avevo visto
eseguire poco prima al ristorante e di cui ho evitato accuratamente di
rendervene conto, sapesse che c’era mancato poco che qualora non gli fosse
riuscita la manovra io avrei dovuto pagare il conto anche al poeta del Capo
Aulico, così detto per i capelli unti e oleosi.
Comunque ebbi modo di appurare, e questo mi lusinga, come,
all’epoca, una critica di un Piromalli, che il suddetto luminare d’Alisandra
conosceva bene il mio saggio sul singhozzo, che feci in memoria di zi’Lucrezia
Petrone(che fece erede universale mio padre e questi donò tutto, era rinsavito,
non c’è che dire, a un tale Tarsitano, forse in virtù della provenienza da
Tarsia?), che vantava, la zia, performances estenuanti di singhiozzo, alcune
con durata ultracircadiana.
Mi rivelò, il valente medico, che aveva letto anche le mie Sindromi Stilistiche
e che non ci aveva capito un
cazzo.
E' da qui che s'ingenera la "Manovra d'Alisandra" |
Il fatto strano è che anche lui delira per pane e pomodoro,
ci mette addirittura il cancaricchio. Così sembrerebbe simpatico, ma se, poi,
il cancaricchio, specialmente se un po’ secco, ti si impiglia in gola?
Sostiene che gli Ebrei delle Trebisacce fanno la
Taramà con la sardicella e che quella che mangiai a Parigi,così bianca e delicata, fatta, con uova di pesci trasparenti, da quei
galli Ebrei, anche spalmata sul pane
casereccio della Cerchiara di Pignatelli, non la eguaglia.
[i]
Scrive Manuel Vázquez Montalbán che “Durante il pasto si può citare un poeta
orientale di altri tempi che abbia lodato il piatto, particolare colto che
quasi nessuno sarà in grado di controllare”[$M.V.M., Ricette immorali, trad.it. Feltrinelli, Milano 1992]. Noi non sveliamo il
nome del poeta calabro-orientale con cui abbiamo dovuto condividere il piatto, che, secondo Manuel, è
connesso all’atletica sessuale orientale, e che, per questa inquietante spartizione, nel
nostro paradigma culinario è ormai
codificato come la Tiatraounga Cancareja .