Nessuno, due allotropi e una precaria allegoria
Il
nome del singolarissimo indiano di Dead
Man, lungometraggio del 1995 del regista americano indipendente Jim
Jarmusch (che prima del ’95 ha già firmato, tra gli altri, film come Coffee and Cigarettes, Down by Law e Mystery Train), è Nessuno.
La funzione principale di quest’indiano, educato in Inghilterra e dotato di un
carattere complesso e nevrotico, è guidare uno spaesato contabile di Cleveland,
chiamato William Blake, attraverso un West visionario e popolato di iperboli
visive e tematiche allucinanti, quasi psichedeliche. L’indiano àncora questo calembour alle sue massime che, con
paterna perseveranza, continua a propinare al recalcitrante William. «L’aquila
non perse mai tanto tempo come quando si lasciò insegnare dal corvo» e «Non si
possono fermare le nuvole, costruendo una barca» sono solo alcune delle espressioni
proverbiali che l’indiano alterna e confonde con i Proverbs of Hell e con altre locuzioni tratte da The Marriage of Heaven and Hell, scritto nel 1790 dal poeta inglese
Blake. Ciò che Nessuno dice sembra fungere da didascalia alle immagini
deliranti (colte, in prevalenza, dal punto di vista di William) di questa
micro-epopea che descrive il progressivo ricongiungimento dell’«uomo morto»
(ancora William Blake) con lo spirito dell’omonimo poeta e prospetta, in questo
modo, una rigenerazione, una «nuova nascita».
Blake
fu anche pittore e incisore e, da autodidatta, disponeva di un incrollabile
interesse per la ricerca di quelle forme non convenzionali di cultura che gli
consentissero di mettere in questione la condizione sociale dell’uomo. Le sue
poesie, spesso originate da una sorta di misticismo del quotidiano, trovano la
loro significazione più piena se accostate alle sue opere figurative o alle
illustrazioni pensate per esse, così come le sequenze di Dead Man meglio raccontano se affiancate alle massime di Nessuno. È
affascinante osservare come la concezione della realtà del poeta pre-romantico,
basata sulla ricostruzione dei tipi e delle idee eterne partendo dalle cose di
tutti i giorni («vedere un Mondo in un granello di sabbia / e un Paradiso in un
Fiore Selvatico, / tenere l’Infinito nel palmo della mano / e l’Eternità in
un’ora», recitano alcuni famosi versi di Blake), riecheggi nell’impostazione
del film di Jarmusch: si perviene a una ricostruzione dell’essenza del mondo
che, attraverso il processo critico di demitizzazione (fatto di innocenza e di
esperienza) attuato dall’attività immaginativa, prende le mosse dalla visione
dell’infinitamente piccolo, dal dubbio, dall’esperimento e dal desiderio di
trasformazione che consentono tanto al poeta quanto al regista di drammatizzare
(o, che è lo stesso, di riconsiderare) i problemi evocati dalle loro opere.[1]
In un
primo momento, William è scettico riguardo al potere conoscitivo e visionario (più
che previsionale) di Nessuno. Man mano che il viaggio dei due prosegue,
tuttavia, egli sembra accettare istintivamente gli insegnamenti dell’indiano che,
così, finiscono per orientare la sua stessa percezione. L’universo idiomatico
di Nessuno diventa la chiave di volta per rendere le visioni di William agibili
o, che è la medesima cosa, verificabili logicamente. Con il passare del tempo,
Blake è sempre più consapevole che è quella imposta da Nessuno la sola
significazione attendibile, la sola in grado di annunciare la verità. Gli
oracoli dell’indiano aggiungono o tolgono qualcosa all’ordine esausto del reale:
non si limitano semplicemente a restituirne gli aspetti più evidenti; hanno la
capacità di rivelare l’orientamento timico di un simbolo o il valore
preparatorio di una data azione, indicando, con processi reiterati, maniacali e
deliranti, una dimensione che, da surreale, diventa gradatamente l’unica
possibile.
Le
appoggiature di Nessuno anticipano e sanzionano tutte le azioni di William
Blake e sono volte a favorire il ricongiungimento con lo spirito del suo allotropo temporale. Il luogo in cui il
contabile di Cleveland acquisisce le competenze necessarie al compimento del
suo viaggio è quello in cui vagano, pronte a essere carpite, le massime di
Nessuno: lo si chiamerà spazio paratopico.
In conformità con ciò che William conquista in tale luogo di lotta, seguono le
performances (spesso violente) orientate all’interno di una estensione utopica.
Le massime dell’indiano sono il preludio del passaggio da uno spazio all’altro,
da un intervallo temporale e comportamentale a un altro: nell’insieme
costituiscono lo spazio topico della narrazione, quello all’interno del quale
si preparano le trasformazioni da uno stato a un altro. Si tratta di variazioni
puramente illusorie se prese in sé: ma di fatto, favorendo il ricongiungimento
tra l’anima e il corpo del poeta e svolgendosi in uno spazio monocromatico,
allestiscono una sorta di contro-spazio, un luogo reale – dice Foucault – ma
fuori da tutti i luoghi.[3] Un piccolo luogo di lotta
mentale all’interno del quale è possibile scorgere la complessità della
visione.
Da un
punto di vista cineastico, a sanzionare gli intervalli tra gli spazi nonché una
certa essenzialità narrativa, intervengono quegli iàti spazio-temporali costituiti
dalle dissolvenze su nero:[4] tali spaziature (spesso
impiegate da Jarmusch per sottolineare il carattere soggettivo della
figurazione) suggeriscono un orientamento diacronico, una continuità che sembra
contraddire il tempo azzerato, il circolo del destino predisposto da Jarmusch.
Si tratta di uno spazio topico dal quale William si allontana definitivamente
disteso sulla sua canoa, nella sequenza finale del film. La morte per William è
il vero spazio eterotopico, il cui raggiungimento sancisce la conclusione della
sua fuga, la fine di quel viaggio predisposto e costellato dai consigli dello
strano indiano e portato a compimento mediante un’azione immaginativa (e dunque
intellettuale, se non poetica) costante sulla realtà. Le parole di Nessuno, con
la loro ambiguità e la loro allusività, rimandano a una sapienza anteriore.
Questa si manifesterebbe al profeta mancato (William Blake) attraverso le frasi
del divinatore (Nessuno). L’indiano è il mezzo di una violenza differita, luogo
in cui una sfera oltre-umana (ma ancora terrena) entra in comunicazione con
quella propriamente umana. Il carattere differito (e dunque malvagio, immorale)
della divinazione indurrebbe a decretare una distanza tra la sfera divina e
quella umana: William, in quanto profeta, cerca di interpretarne il significato
che, pur essendo spesso ordinario, mantiene un ché di angoscioso, perché eterno
e assoluto. L’evolversi della narrazione prescinde dallo scioglimento degli
enigmi o dalla loro mancata risoluzione: la tracotanza tutta indiana del logos di Nessuno decreta una fine che
non può essere evitata in alcun modo da William Blake. È appena il caso di
notare come questa struttura unica e complessa dio-divinatore ricordi quella costituita da Apollo (inteso come un
dio malvagio che non vuole che l’uomo comprenda) e la Pizia (la farneticante
invasata dell’oracolo delfico):[5] essa trova una
condensazione parziale, temporanea e, allo stesso tempo escatologica, nell’uomo
dell’immaginazione, nel genio poetico, nell’umanissimo dio-poeta paventato da
Blake e ripreso da Jarmusch.
Questi, è bene ricordarlo, è studioso di surrealismo
(in particolare, dell’opera di André Breton), nonché cultore e scrittore di
letteratura beat: da ciò nasce quella
estensione particolare della realtà che, all’interno dei suoi film, egli riesce
a creare unendo e confondendo elementi tratti dal quotidiano e vedute e
correlazioni puramente filmiche. Down by
Law, Night on Earth e,
ovviamente, Dead Man sono buone
esemplificazioni del modo in cui Jarmusch sia in grado di giocare
linguisticamente con le immagini di cui dispone: spiegano la maniera in cui
egli si diverte a rovesciare o a riposizionare il cliché letterario e
cinematografico che ha appena evocato. Anche in Ghost Dog, film del 1999, è facile scorgere un’organizzazione
logico-strutturale simile a quella riscontrata in Dead Man: il racconto e le immagini sono un residuo fantasmatico
della visione di un unico soggetto, la cui distorsione (o rivisitazione) agisce
(linguisticamente) sull’impianto e la distribuzione dei vari episodi e
(letterariamente) sull’allestimento visivo e le suggestioni tematiche delle
singole sequenze.
Tornando
al film del ’95, al di là della determinante funzione di appoggiatura esercitata
da Nessuno, risultano rilevanti all’interno del film i due problemi onomastici
cui si è fatto riferimento all’interno di questo scritto e che riassumo qui,
cercando di considerarne, in conclusione, le rispondenze filosofiche. Il primo
riguarda ovviamente il nome dell’indiano: nonostante la componente semantica
dell’appellativo sia insolita, Nessuno mantiene
la normale funzione di rimando del nome a un corpo sradicato, ma essenziale e dotato
di un tempo evolutivo. La sensazione di straniamento che si produce nel
chiamare qualcuno con questo nome costituisce l’ennesimo tassello nello
scenario paranoico-demenziale di Jarmusch. Il secondo problema è costituito
dall’omonimia che lega il nome del contabile a quello del poeta visionario
William Blake. L’accostamento a livello discorsivo di due figure denominate
allo stesso modo ne fa quasi due allotropi della stessa persona distanziati
temporalmente. Questa connessione tra momenti diversi di una stessa ontogenesi
è sancita proprio da Nessuno (che a sua volta rimanda al dio nascosto, al dio
morto, al Nobodaddy di Blake) che scorterà William fino al
ricongiungimento con lo spirito del poeta. L’«uomo morto» – la cui volontà
d’esserci (o coscienza di sé) si condensa in quella che si rivelerà ben più di
un’armatura vuota – porterà a termine il suo viaggio, disteso su una canoa
coperta di rami di cedro e salutato come se fosse un essere che non fa più
parte (o, più propriamente, che non ha mai fatto parte) del West descritto da
Jarmusch o le cui azioni sono ascrivibili esclusivamente a un contesto
idiomatico (o poetico) a-temporale. William, dal canto suo, cerca una prova
tangibile del proprio essere, e la troverà all’interno della dimensione
nominale ma essenziale, concreta e, nello stesso tempo, astratta e letteraria,
messa in piedi con l’aiuto dell’indiano Nessuno.
Tuttavia, il suo apparente
fallimento (che, in definitiva, è invece un’agognata acquisizione sul piano
ontologico e cognitivo) porta ancora una volta allo scoperto il problema della mitologizzazione
della vita, la riduzione del disordine della vita all’ordine del mito (o alla
sua letteratura, che è il luogo comune o il cliché). Il film può leggersi,
insomma, come un canto del cigno dell’allegoria e del feticcio e di
quell’ordine retorico che essi implicano: Nessuno prova, con ironia e serietà,
a designare in William Blake lo scatto eterotopico, soggettivo e visionario
della forma allegorica che deve misurarsi con le cose materiali perché, a
quanto pare, non possono essere tralasciate. La dimensione mitologica di
riferimento (quella indiana e americana, quella del West e del western, dei
bounty killer, del poeta scomparso, ecc.) deve fare i conti con un processo
costante di formazione che passa attraverso il corpo e l’esperienza e che non
può prescindere dal mantenere un rapporto costante con la realtà quotidiana,
pur entrando costantemente in relazione con l’altrove e con il possibile: è per
questo che sia Nessuno sia William Blake superano la sfera arcaica e astratta
del mito e dell’allegoria e si conficcano invece, tanto con le loro azioni
quanto con le loro parole, nella consistenza infernale e fuorilegge, e colorata
seppure informe, della loro vita, colta sempre nella sua penultimità;[6] vale a dire nel suo
costituirsi come sistema autopoietico che si mantiene con i suoi stessi mezzi e
allestisce un personale ordinamento della realtà, ma che ritorna costantemente
ad essa (alla sua vera indeterminata consistenza e non alla sua visione
meccanica o statica), perché è frutto tanto dell’emergenza di una serie
infinita di correlazioni e retroazioni tra i soggetti (generati sul legame
indissolubile di spirito e corpo, di passione e ragione, di desiderio e
moderazione) e di interazioni tra questi e gli oggetti, quanto della
complementarità e della simmetria tra le parole (di Nessuno), i versi e le
opere figurative (del Blake poeta, incisore e illustratore) e la visione
critica dell’«uomo morto». Ne scaturisce, infine, un’allegoria costantemente
rinnovata che, proprio perché continuamente annullata e rinegoziata (sia sul
piano paradigmatico sia sul versante sintagmatico) dalla percezione e dalla
ricognizione visionaria di William, sancisce una volta per tutte la precarietà
e, quindi, l’opportunità del proprio punto di vista.
[1] Sull’opera poetica di
William Blake si veda M. Praz, Storia della letteratura inglese [1937],
Firenze, Sansoni, 2007, pp. 413-415; ma anche l’utilissimo G. Franci, R. Mangaroni, Blake: la lotta mentale, in «Per la
critica», n. 3, luglio-settembre 1973, pp. 29-43.
[2]
Dead Man stravolge, di fatto, le
marche di identificazione del film western, genere fortemente codificato nel
cinema hollywoodiano.
[3] Cfr. M. Foucault, Le eterotopie [1966], in Id.,
Utopie Eterotopie, trad. di A.
Moscati, Napoli, Cronopio, 2008, p. 13.
[4]
Le dissolvenze, a loro volta, si accordano alle svisate della chitarra di Neil
Young (compositore delle musiche del film). La chitarra accompagna anche quei
picchi emotivi, costituiti dalle sequenze più crude (il cacciatore di taglie
che schiaccia la testa dello sceriffo o che rosicchia – con soddisfazione – la
mano del suo collega) o quelle dotate di un’accentuata valenza simbolica o
mitologica. Sull’argomento cfr. U. Mosca,
Jim Jarmusch, Milano, Il Castoro,
2000, p. 105.
[5]
Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia [1975], Milano,
Adelphi, 1996, p. 20.
[6] Per una definizione dell’area
semantica del termine, cfr. G. Deleuze,
L’esausto [1992], trad. di G.
Bompiani, Napoli, Cronopio, 2005, p. 15 e passim.
Nessuno, due allotropi e una precaria allegoria
è stato pubblicato in: "Zeta" n.90, Campanotto editore,
Udine settembre 2009.