A UN ALTRO PERSONAGGIO IMMAGINARIO
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Gentile signora
Può sembrare improbabile
ciò che sto per scrivere. Sarei disposto anzi a non farne nulla per non mettere
in forse la vita di qualcuno tendenzialmente portato al solipsismo. In alternativa
il rischio potrebbe correrlo un qualsiasi signore affetto da idiosincrasia.
Meglio perciò astenersi.
Sennonché (divertente il sennonché) qualcosa urge, mi preme,
vuole uscire; mi richiama all’ordine, al rispetto delle regole. Non resisto,
cedo. Eccomi allora, con la dovuta cautela, raccontare di quando nel cimitero
di Père Lachaise e di fronte alla tomba di Abelardo ed Eloisa (o era un’altra?)
vidi passare una farfalla: dalle ali maculate, bruno su giallo, antenne protese
a catturare suoni e odori per orientarsi; occhieggiare in direzione di un’altra
farfalla non ancora individuata per sesso. Rimasi perplesso, se usare la retína
e catturarla oppure far finta di niente e soffermarmi – nella stessa posizione
contrita e compunta – davanti al tempietto elevato a simbolo di amore infelice.
Fui però distolto da entrambi gli eventuali propositi perché improvvisamente
una lieve pioggerellina mi costrinse ad aprire l’ombrello e riparare dopo poco
sotto un cipresso.
Segno del destino,
solitamente avaro? Casualità, e perciò non previsto? Improvvisamente mi sento
cascare in testa (avevo chiuso l’ombrello perché non più necessario) un nido
con quattro uccellini, figli di rondini, nessuno dei quali per fortuna ferito, merito
della mia folta capigliatura. Li raccolsi da terra; li misi in tasca; e con
simile trofeo – unico nel suo genere tanto quanto incredibile sembra ciò che
sto per raccontare – vado verso l’uscita del cimitero implorando gli uccellini
di non pigolare altrimenti i guardiani avrebbero potuto sequestrarmeli e magari
denunziarmi di furto, o anche di peggio.
Mi andò bene. Una volta
raggiunta la fermata del tram (i fatti accadono attorno al 1910), e ripreso
fiato perché dovevo allontanarmi dai luoghi il più presto possibile, cominciai
a carezzare il capino ora dell’uno ora dell’altro dei rondinini. Ce ne sono due
per ogni tasca del palétot: chi più
giocherellone chi meno ma tutti convinti che in fondo non stiano facendo che
una passeggiata per poi essere riportati al luogo di origine. Sembrano anzi
eccitati all’idea di potersi ritrovare agli Champs-Élysées o alle Tuileries,
oppure ai giardini del Lussemburgo, ove il signore di cui sono ospiti dovesse
decidere di andarci. Da parte sua questo signore, tuttora in attesa del tram,
vorrebbe potersi spiegare cosa gli è accaduto al punto da distoglierlo da una
sosta, prolungata, davanti al monumento innalzato (da chi?) ad Abelardo ed
Eloisa. In verità, nello stato di confusione mentale in cui si trova, non
saprebbe neanche dire esattamente perché si era recato al Père Lachaise e a
fare cosa. Casuale dunque il transitare, e fermarsi, davanti a quella tomba
oppure, partendo da lontano, è stata fin qui insita nel suo genoma la
progettata visita all’apoteosi dell’amore, tant’è che senza un’altra vera
ragione è salito a Milano sull’Espresso per Parigi?
Non ci sono spiegazioni
razionali a fatti obiettivamente irrazionali: e questo è uno di quelli. C’ero
stato non so quante volte a Parigi: vuoi per una gita sulla Senna per avere la sensazione
di andare a zonzo; vuoi per mettermi sotto l’Arc de Triomphe e da lì immaginare
l’esercito di De Gaulle ritornare, e sfilare, da trionfatore sulle canaglie
naziste. Più di tutto mi piaceva gironzolare per la Place de la Bastille – e mentalmente,
mattone dopo mattone, immaginare il luogo simbolo di detenzione risorgere per
quindi vederlo assaltare e abbattere, farne detriti. Ma questa volta, perché una
visita a un cimitero che, al contrario, conserva i resti; quasi li accarezza;
dà loro movenze negli abiti e colloca una aureola sulla loro testa posto che la
loro morte abbia unito per sempre una coppia, e che coppia?
Qui si innesca la mia
preoccupazione. To be or not to be;
dire; raccontare; o tacere per evitare un tentativo di suicidio in chi già lo
medita e vorrebbe però qualcuno che lo tramandasse: evidentemente di sesso
diverso dal suo (il solipsista)? Quale la reazione, invece, dell’affetto da
idiosincrasia: colui che ha in odio ogni forma di amore, persino quella di
essere celebrato con un monumento bronzeo o marmoreo a ricordo di avere rappresentato
l’apoteosi dell’amore: e magari non è vero?
Sono sotto l’effetto di
tale dilemma. Guardo insistentemente verso la curva con la speranza di vedere
sopraggiungere il tram. A quel punto sarò distolto dal pensiero di trovare la
soluzione al to tell or not to tell e
potrò darmi a incombenze come pagare il biglietto per la corsa del tram fino in
centro (per uno o per cinque: dato che i quattro rondinini hanno cominciato a
cinguettare e non smetteranno fino a quando non avrò raccolto quattro vermetti
dalla siepe che fa da sponda alla strada per darli loro in pasto.); oppure
cominciare a pensare a un racconto da dedicare a una persona amata, una
qualsiasi. Non è cosa da poco. Richiede concentrazione. Dovrò pertanto trascurare
i miei quattro uccellini; decretare eventualmente la loro fine. La cosa però mi
ripugna. Avrei fatto meglio a lasciarli per terra. Un’altra anima buona avrebbe
potuto salvarli da morte certa ma sono incappati in me e la loro fortuna è stata
la mia folta capigliatura nonché la capienza delle tasche del mio cappotto.
Animo dunque, saliamo sul tram, paghiamo il biglietto, sediamoci.
Li tirai fuori, ormai
sazi, uno alla volta. Non parve loro vero. Come fringuelli volarono via da uno
dei finestrini aperti del tram, tra la sorpresa generale degli altri utenti che
infine batterono le mani. Stessa cosa fece il bigliettaio e si dispiacque il
conducente di non aver potuto far parte degli spettatori per acclamare
l’evento.
Ritennero però che fosse
tutto un trucco; che io fossi un venditore di favole o frottole e rimasero in
attesa che passassi (piattino in mano) per raccogliere l’obolo dovuto a uno
spettacolo sicuramente inusitato. Avevamo fatto circa un chilometro di strada e
perciò eravamo giunti in prossimità dei grandi boulevards allorché l’imprevisto:
tutti e quattro gli uccellini rientrano nel tram, beccheggiano facendomi
intendere che vogliono rientrare nelle mie tasche, due qua due là. Li
accontentai. Alla prima fermata scesi con il mio prezioso carico e camminai
tronfio per successivi almeno due chilometri finché essi non ritornarono a
volare per non più ritornare. Non me ne dolsi, comunque. Adesso potevo
immaginarli di nuovo liberi e felici mentre a me non restava che andare in
lungo e in largo per Parigi alla ricerca di una possibile Eloisa. Ebbi invece
la ventura di trovarla in tutt’altra persona ma in fondo non troppo dissimile.
Per affinità con il nome Eloisa la chiamai Elena Casella.
©Ignazio Apolloni
© by laura makabresku
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