Il minigolf e il crollo del comunismo
28 luglio 2010
Ogni cosa ha il suo tempo e l’estate è il tempo giusto per il
minigolf. D’altra parte avete mai visto qualcuno che gioca a minigolf in una
sera piovosa di febbraio? Così in questa sera d’estate vi racconto il mio
articolato rapporto con il minigolf.
È cambiato tutto un giorno di settembre del 1988. Poco dopo l’ora
di pranzo. Fino ad allora ero, come la stragrande maggioranza degli umani,
cieco sulla verità del minigolf. Per me era “un gioco un po’ bizzarro e
casuale dove il giocatore deve fronteggiare difficoltà caratterizzate da buffi
ostacoli e strane piste sbattute lì, un po’ a caso, da chi ha realizzato il
percorso”. Sono le parole che la FIGSP, Federazione Italiana Golf Su Pista,
affiliata alla World Minigolf Sport Federation, WMF, ha scelto per descrivere
l’ignoranza. Io avevo giocato nelle sere d’estate nella Riviera Romagnola, con
i miei genitori e mio fratello, prima che tutto precipitasse e quella
diventasse la Riviera del Peccato. Stavamo in pensione, la mattina c’era il
rito della spiaggia, il pomeriggio la gita a San Marino o all’Italia in
Miniatura. La sera era per la sala giochi – quante luci per noi che venivamo
dalle notti buie della campagna – e il minigolf. La notte c’entra. L’ho capito
studiando la storia sociale del minigolf sul sito della Federazione. Dopo il
1920 negli Stati Uniti – il minigolf è nato lì, potevano esserci dubbi? – è un
fenomeno di massa: lo giocano le stelle del cinema e ci sono più di trentamila
campi. Centocinquanta a New York, alcuni sulle terrazze dei grattacieli. È uno
dei primi sport a potersi praticare anche di notte. Si gioca ad ogni ora: la
sera, dopo il teatro, con gli impianti che chiudono alle 4 del mattino. Un
pezzo di quell’eccitazion riviveva nelle nostre serate familiari nel minigolf
di Cervia. Accanto alla sala giochi, perché il minigolf era l’estensione
naturale della sala giochi. Un percorso tra i pini marittimi, delle specie di
vialetti con dei muretti bassi ai lati, dai quale la pallina usciva solo se
quando la colpivi eri fuori di cotenna come un broker cocainomane. E in quei
tempi fortunati nessuno sapeva cosa fosse un broker. Tra il punto di partenza e
l’obiettivo finale, la buca, c’era l’ostacolo da superare. Lì la fantasia del
costruttore si esprimeva nei migliori esempi di arte lisergica degli anni ’70.
C’erano castelli turriti, spirali stringenti, mulini a vento, cunette a tre
gobbe, salti del fossato, tutti i monumenti nazionali e il ponte sullo stretto.
Perché qualcuno aveva già intuito che il ponte sullo stretto era un affare.
Ricordo barricate di Sette Nani, Biancanevi da attraversare e curve paraboliche
con 3G di accelerazione lineare dalla quale la pallina usciva a velocità
micidiale, più alta di quella impressa dal fiacco giocatore. Un mistero della
fisica. C’erano anche grotte del diavolo, posti di blocco, ruscelletti e zone
paludose con annesso Mastino di Baskerville in miniatura o in dimensioni reali.
Si diceva di un impianto a Cesenatico in cui la pallina entrava nella bocca di
un tunnel stretto stretto e usciva da una lì a fianco, ma attraversando la
cucina del circolo pescatori sul Portocanale.
Davanti agli ostacoli più impegnativi il concorrente tentava e ritentava.
Sempre meno determinato. Così si formavano lunghe code di altri giocatori in
attesa che il malcapitato superasse lo scoglio. Per botta di fortuna o
decisione del destino, raramente per capacità. Molti si stufavano e migravano
oltre, verso la buca successiva: “Poi torniamo indietro e facciamo questa”.
C’era molta fortuna e poca abilità, almeno per come lo giocavamo noi. Il
minigolf rappresentava quegli anni ’60, quando le cose sembravano poter andar
bene per tanti in questo paese. Era un’estensione del flipper, una fotocopia
ingrandita e distesa per terra. Tu ci potevi camminare dentro con la tua mazza,
gli amici e la pallina d’ordinanza.
Quello che ti consegnava mazza, pallina e foglietto segnapunti stava in una
casetta-ufficio che sembrava uscita dal condono edilizio di Hansel e Gretel. Ma
aveva la faccia da persona normale, che stonava un po’ di fronte a quella
palese violazione della normalità che era il minigolf. Passavo ore a chiedermi
che mestiere facesse, nei mesi normali dell’anno, quello che in estate gestiva
il minigolf. Perché sono sempre stato un bambino sensibile e tormentato. Anche
per questo poi ho studiato psicologia. Il primo lavoro mi è capitato al
servizio di salute mentale di Cusano Milanino. Hinterland di Milano ma zona di
un certo tenore: lì a fianco del nostro sgangherato ambulatorio il Trapattoni
stava restaurando la sua villa. In un intervallo di pranzo l’infermiere Armido
ed io ci spingiamo per un panino fino a Paderno Dugnano. Una botta di vita.
Sulla via del ritorno uno striscione ci avvisa che nel Minigolf Club di via
Aldo Moro sono iniziati i Campionati Europei Assoluti. Di minigolf. “Non è possibile”,
ci diciamo noi, “l’idea di Campionati Europei Assoluti di Minigolf è un
delirio”. E siccome di deliri ci occupiamo andiamo subito a vedere.
Vediamo qualcosa a cui non siamo preparati: un minigolf da killer.
Schiere di giocatori freddi come chirurghi affrontano e superano ogni buca in
due colpi secchi. Il primo per oltrepassare l’ostacolo ed avvicinarsi alla
buca. Il secondo per metterla dentro. Sempre. Prima di tirare spazzolano la
pallina, si concentrano come un monaco zen, mazza in mano e sguardo piegato a
sinistra. Sferrano un colpo di calibrata energia e non sbagliano mai, una buca
dopo l’altra. Sono dei grandi ossessivi. I migliori sono cecoslovacchi e di
altri paesi dell’est. Hanno autocontrollo, distacco, impassibilità. Vengono da
un altro mondo e sono professionisti di un minigolf mai immaginato. Sono
comunisti. Completamente affascinati da quella rivelazione l’Armido ed io non
capiamo che manca poco, un anno appena, e quel mondo crollerà. Sta già
scricchiolando. Non lo capiscono neppure loro con le Skoda parcheggiate fuori
dal minigolf club di Paderno Dugnano. Ma tutto torna, perché la storia ci dice
che il minigolf ha sempre avuto i suoi apici nei momenti di crisi: negli Stati
Uniti durante la Grande Depressione del ’29; nel blocco Sovietico poco prima
della fine. Adesso potrebbe essere il nostro grande momento.
Armido ed io ci siamo concessi qualche minuto in più sul rigido intervallo di
pranzo, in quei giorni per noi fondamentali del settembre ’88. Il ministro
Brunetta ci perdoni. Tra l’altro: gira voce che su diciotto buche di minigolf
nel campo del Dopolavoro Comunale di Venezia, al Lido, quattordici abbiano un
Brunetta in gesso come ostacolo. Le altre quattro dei nanetti. Dopo quella
volta l’Armido ed io non abbiamo mai più giocato a minigolf.
‘U ZÚLLARÖ
Mentre si era qui con l’angoscioso
interrogativo: Che fine ha fatto Cirri? Ha visto, manco intera, quella
partita…e poi? Cos’è successo?
Tanto che, ormai alle corde tra l’ansia e l’angoscia, proprio ieri stavo per
rimetter mano alla mia password e rientrare nel “Post” per chiedere – a chi? Al
Post intero, all’Altro, nel senso di Baudrillard? – con una tragedia in due
battute, mi perdoni Achille Campanile, dove fosse andato a parare Massimo
Cirri.
Invece… lei se ne stava, deluso dal pallone, a giocare a golf, anzi a
minigolf!...
Beh…sa che la cosa non mi meraviglia? Uno che manca per quaranta giorni dove
vuoi che sia stato? A giocare a golf! E poi, deluso dal pallone, che c’è di
meglio della pallina?
Il golf, per quanto sia mini, è un gioco di abilità, in cui bisogna essere
abbastanza in forma da dare uno slancio vigoroso con la mazza. L’idea di
pigliarsi un mese o più di vacanza lontano dalle partite(della Nazionale) per
l’analisi del colpo di mazza è impensabile, ma è proprio quella che ci vuole
per far scendere i propri punteggi.
Comunque, a fronte di una massa muscolare, resistenza muscolare, forza
muscolare, resistenza cardiorespiratoria tutte relativamente “basse”, e a una
mobilità e solidità di articolazioni e legamenti “medie”, è la capacità di
rilassarsi che, nel golf, deve essere “alta”.
Detto questo, a me, fanciullo, piaceva la “pallamaglio”, ma giocata a
“zùllaro”: non avevamo la palla, figuriamoci se di radica e col peso
equivalente a metà circa della testa del maglio, e chi te la dava nella Calavria
degli anni cinquanta-sessanta? Quindi, c’era la mazza, ‘u vett’i scopa, e un
altro pezzetto di legno, lungo quanto il palmo della mano, con i bordi
temperati come una matita, però col coltello, ‘u zùlluru.
Le pietre, quelle sì, c’erano. Ma non so proprio se venissero intese come
“pietre di tocco”; né posso giurare che la palla fuori del percorso sarebbe
“annegata”.
Le buche, nel percorso fatto su carrarecce, mulattiere, viottoli e tratturi,
c’erano, ma a zùllaro non contavano.
Lei lo sa, la pallamaglio faceva dimagrire gli obesi, calmava per via delle
lunghe passeggiate, ma, mi creda, a quei tempi, oltre che la palla, mancavano
gli obesi, e , in quanto al fatto che in Francia il gioco si chiamasse “mail”,
beh, è forse per questo che oggi lo ricordiamo sul web?