Voglio dire
Stefano
Guglielmin
©
blanc de ta nuque |
Sanguina, leporina, questa brocca
pandora, se dici
"basta" non per chiudere
o sostare, ma per derubare e dare
guerra
al volo visto su forzearmate.org,
che spiana
la tavola al pozzo, alla diga,
alla pasta dura
di guano, per la famiglia, pare,
per l'allegra
compagnia in battaglia, che fa
futuro
e libero commercio e qualche
altro ossidrico
esercizio, come la fiamma
dell'orzobimba cortigiana
che scappella il giovine cadetto
prima di morire.
Voglio dire: che l'uno e l'altra
che lei cocca e lui soldato,
entrambi, voglio dire
che la giovinezza
è bella scritta sui muri o
nemmeno quello
talvolta, se dietro grufola il
banale o la sua
controfigura, tutta ociciornie e
letame
nel suo mondo di bragia, la
controfigura, nintendo
quella cosa sfatta di dietro,
rosa, marcia
liquescente, la pornopalus di
madama edwarda
ma senza dio, senza scandalo che
salvi, solo pezza
cauterina e consol, solo brezza.
Per questo dico no
alla foresta di sandali, al
postgoverno
e no alla salvia che indora,
all'amore per Lotte
quando frigna, a quel buio
sentire spaesato
che smette l'acido in bocca e
consola.
Batto invece il tempo con i chiodi
e cerco rime sopraffine come nice / camice
ano / gozzano per fare festa freudiana e
ancora
godere della parola fantola, senza
lacrima, però
ma crudele, forse, e malata
perché vera perché
schiva. E poi, sia detto con
chiarezza
rompe di più Caparezza,
l'effervescenza
della sua catena non interrotta
di motti, o l'odore
lungo del pastore, lurido d'erbe
e d'animali
che la poesia civile, oggi, di
più il camallo
stramazzato che la politica,
spesso, io comunque
adesso, muovo da porta nuziale,
attraverso il canto
cauto, lo sformo, seguo, della
teoria dei giochi
il suo programma solidale, anche
se poesia
tende a / stampa per / niente, a
volte, come del resto
il tentacolo senza spettatore, il
naufragio
di cui siamo spettri, fragili
plettri.
E comunque mi chiedo: meglio
D'Elia, il poeta
che chiama padre Pasolini, o
Lina, la bianca pollastra
di Saba, regina serena tra le
braccia di Dio?
Ed è più degno il legno o
l'amianto, il corpo teso
del discobolo o quello di chi
muove all'obolo
il marmo o il karma, o la Marna,
invece, che è roccia
sedimentaria e la prima forma di
trincea precaria
dove ricevere la qualità dei
tempi e far poesia
come ripete, in Laborintus,
il caro estinto
alla vigilia della rivoluzione
(linguistica, almeno
e meno fascista dunque) quando al
cottolengo
si votava, e senza vergogna,
pare. D'altro canto
nemmeno il comunismo s'ha da
fare, in quel frangente
ma da dire, appunto o, meglio, in
contrappunto
s'ha da smontare.
Però, davvero, ancora mi domando
se questo paravento abbia un
senso, se questa messa
in pena valga la cera e quanto o
invece
buchi meglio lo scherno l'impiego
crudo del vero
con corpi monchi e scalpi o
l'allegoria
feroce che fa da linfa alle feste
del potere
da Luigi quattordici alle
undicimila verghe alle centoventi
di Salò, baionette antiborghesi,
anche se poi
tutto rapprende in solida bolla,
s'ingloba
in carta buona e lancio
editoriale.
Però la borghesia, forse, per
quanto
piccola, e il proletariato e
l'ospite indesiderato
sono comode figure,
semplificazioni che sporcano
di meno. Ideologie, appunto,
tare. O almeno, così pare
se è di questo che da Parigi a
Casarsa si dice
e non, invece, come credo, della
bestia oscena
del maschio disumano lanciato
contro la femmina
motrice, chimera che
spaura perché più dell'uomo penetra
più di lui domina la scena. Forse
di questo stiamo parlando
anche quando cantiamo l'amore o i
punti vinti al gioco
quando chiediamo se val bene
questo
quello o l'erba in mezzo, come a
beato ristoro
poetando.
Come vedi mi cito, mi chioso
con tutto il corpo che posso,
scopro la voce, le voci
che come a Giovanna mi sparlano
dentro, per liberare
la faglia, così che spiffero e
buio e quanto rimane da dire
come da botte larga escano fuori
o da bottega
ch'è un fare felice, se campana,
per esempio, nasce
da terra ed ingegno, come in un
film di Tarkosvkij
o da una poesia di suo padre,
dove "l’erba come un flauto
- d'improvviso - cominciava a
suonare".
Io credo, davvero, che di
traverso
si metta comunque l'uomo, non il
verso
e che quanto piace al mondo è
greve, unto
come l'amaro Belice e la calce
viva sui morti
a Dachau. E credo, anche, alla
complicazione
radicale, che non è un partito
ma un'idea, un rispettoso gesto
d'amore verso il vero
e, il mio, un omaggio a
Sanguineti.
Complicazione, dico, non
sabotaggio, ronda
o l'invasione del Sudeti, bensì
il volo
suadente di Palomar dentro l'onda
o il radente
suo scrutare l'infinito, la
passeggiata
sul cono del vulcano e l'ascolto
dell'amore tuo
nervoso, la pazienza che richiede
un corpo vivo
con tutte le sue lune, o l'ombra,
che solo divora
divora... Voglio dire, anche,
semplificando:
so che la violenza, so che
l'ingiustizia e la fame
so quando e dove / e come può uno
scoglio
ma non basta se poi confondo
Cesare con Lucio
o patto con inciucio, se parlo
per luoghi comuni
e non distinguo tra selva e
Stato, là dove cappio
e fanculo votano insieme e
complottano
con tanti verbi sodi, tipo:
compro, vendo, guido
io vorrei che tu, lupo,
che non sei bestia natura ma
metafora d'ogni più cagna
sventura, patissi / patiste
come acino d'inverno o fra
Dolcino, quando sentì l'odore
della sua bella sciogliersi al
fuoco, ma non per vendetta
lo dico, non mia, comunque, ma
per giustizia
comune o contrappasso, per
democrazia, volendo
se ancora respira, laggiù, lumino
zoppo dei morti
cuore remoto.