▐ Paolo Broussard▐ Il tonno alla calabrese e la "violazione di Murat"™ nella scheda del P.M. da "L'Assassinio dei Poeti come una delle Belle Arti"
PAOLO BROUSSARD
(Pizzo
Calabro, 1927 ; vive a Colleferro).
Titoli: Galassia Criterion, Milano 1963; Logotica, Milano 1978.
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Fino al 1970 Broussard aveva, più o meno, pubblicato 20(venti!)
sillogi di Poesia e aveva in preparazione studi di Logica e di Estetica, e poi
fece un impasto e ne venne fuori il citato titolo “Logotica”.
Intanto, si sappia che Paolo Broussard è nato a Pizzo Calabro,
che, vabbé che ad agosto ci fanno il Premio di Pittura, è famosa per il tonno
(Callipo e Sardanelli sono tra i migliori produttori, insomma i più diffusi).
Così, quando il Lafcadio Addetto andrà a Colleferro, per
ingraziarsi il Poeta che ne è ghiotto,
non dimenticherà di portargliene in omaggio almeno 20(venti) confezioni in
vasetto di vetro da 310 grammi(peso sgocciolato).
Colleferro si trova nella Ciociaria, dopo Valmontone, dove di
notevole c’è il barocco palazzo Doria; se a Colleferro tirate dritto arrivate a
Segni, da cui, niente niente, salite all’antica acropoli volsca, che ha delle
mura poligonali, poderose come il culo di Sophia Loren ai tempi de “La ciociara”. Se volete, ammirate pure la
singolare porta Saracena, che in quelle mura vi si apre, e non fate connessioni
improprie.
Per non fare tardi, ad Anagni date un’occhiata veloce al palazzo
di Bonifacio VIII e , se non siete di Alba, il cui famoso Duca la distrusse nel
1556, fermatevi a mangiare al “Gallo”, che è chiuso al sabato, ed è vicino al
Palazzo Comunale.
Dopo pranzo, il Lafcadio telefoni al poeta Broussard parlando in
francese:
“Je voudrais prendre un rendez-vous avec le Poète; est ce que je
peux venir immédiatement ? C’est urgent!”
Broussard: “Pronto, ma chi cazzo palla? Che minchja vuõi?”
“Est-ce que je
pouvais parler au Poète, s’il vous plait?”
Broussard: “ Eccònchicãzzo
credevi di pallare? Il Poeta sono!”
“Est-ce que je
peux continuer mon voyage?”
Broussard: “Due sono I tipi di stronzi:
quello che parte
dalla cavità dolorosa del nome
e ne perfora gli
orridi; resta nel nome perché è
ragione del suo
sistema.
L’altro divora i
settori della reazione quotidiana
e scende sulla
Luna.
E’ una variante
della dilatazione.
E mi rompe il
cazzo.”
A questo punto, il Lafcadio, dicendo:
“L’uomo trova
lassù o laggiù, esteriorizzata, la sua identità”[i]
Arriva a casa Broussard, gli mostra il tonno e, tra un verso e
un sorso, e un’insalata di tonno con la cipolla di Tropea e l’altra di
Castrovillari, lo convince a partire insieme per Pizzo Calabro, dove, tra un
verso e un sorso, una Logotica e l’altra, la rifrazione della Luna, la cavità
dolorosa del nome, i crateri soggettivi, gli arcobaleni e le radici, lo affoga.
[i] Sono versi tratti dalla poesia “Tipi di esplorazione”,
pubblicata in : Le Proporzioni Poetiche,
vol. I, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti, Milano 1971:
pagg.181-182.
Tra
i manoscritti del Poeta di Pizzo gli Inquirenti hanno rinvenuto questa ricetta
per cucinare il tonno alla calabrese.
Ingredienti
¬ 800 grammi di TONNO FRESCO in
quattro fette di due centimetri di spessore
¬ 1 dl e ½ di OLIO extra-vergine di
oliva
¬ ½ bicchiere di VINO BIANCO secco
¬ 3 cucchiai di ACETO BIANCO
¬ 1 cipolla media
¬ 1 cucchiaio di FARINA
¬ 100 grammi di POMODORI PELATI
¬ PEPERONCINO PICCANTE in polvere
¬ TIMO
¬ 1 foglia di
LAURO
¬ 1 cucchiaio di
PREZZEMOLO tritato
¬ SALE
¬ CETRIOLINI
¬ CAPPERI
Preparazione
In un tegame di coccio rosolare le
quattro fette di tonno; sgocciolatele, salatele e lasciatele riposare.
Nell’olio, con cui avete rosolato il
tonno, fate soffriggere la cipolla affettata finemente, versate la farina e
mescolate.
Bagnate la cipolla e la farina col vino,
mescolato con altrettanta acqua e tre cucchiai d’aceto, condite col sale, col
peperoncino, un pizzico di timo, la foglia di lauro e il prezzemolo tritato e i
pomodori spezzettati.
Quando la salsa inizia a bollire,
immergetevi le fette di tonno e fate continuare la cottura a fuoco lento,
dolce, per circa un’ora.
Al momento di servire, mescolate nella
salsa un trito di cetriolini, capperi e prezzemolo.
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Inizialmente, si congetturò sul nome di Manuel Vásquez Montalbán, avendola ritenuta una ricetta immorale,
dotata, cioè, della stessa semantica lussuriosa di una “Zuppa giamaicana” o
della “Tiatraounga Annamita”.
Proprio su questo piatto, composto da filetto di maiale, champignons,
gamberetti, cozze e uova, avendo, il narratore spagnolo, prescritto la
citazione, durante il pasto, di un poeta orientale[i]
per una semplice frittata campagnola più o meno asiatica, furono fatte analisi
ermeneutiche e pragmatiche che, appurando il fatto che un “Tiatraounga” si può
mangiare a lume di candela, e ritenendo, inizialmente, che il “tonno alla
calabrese” non permette voluttà esotico-mistiche, fecero accantonare questa
pista.
Gli Inquirenti ritenevano che il Lafcadio Incaricato non avvicinò il
Poeta di Pizzo con le armi della seduzione, tanto da qualificarsi o
rappresentarsi come una Paola di Liegi trentenne, con “quell’aria da
principessa che marina la scuola cinque giorni a settimana per abbandonarsi tra
braccia plebee che puzzano di soffritti profondi”[ii] o
“come una signora castana, con la pelle rosea alla maniera irlandese, tette
rotonde un po’ flaccide di donna che ha allattato(sono loro a fare le migliori
marmellate) e un culo un po’ alto e impertinente”[iii],
ma ritenevano, però, che il “tonno alla calabrese” fosse una ricetta immorale
che, propinata dall’autore di Pepe Carvalho, fosse servita all’Assassino per
agganciare il Poeta di Pizzo e sopprimerlo dopo avergli soddisfatto la gola e
facendogli pregustare chissà quanti altri piaceri prima con la vista e poi con
il tatto.
Per questo, gli Inquirenti, forti della logica del “Se tanto mi dà
tanto”, se per la “Marmellata Montserrat” c’è la consistenza altera delle
natiche irlandesi[iv],
se per il “puré di tartufi” aleggia il fantasma di Lady D[v],
allora per il “tonno alla calabrese”, se c’è da un lato il Poeta di Pizzo, dall’altro
c’è uma europea del nord longilinea, sì ma, non proprio ectomorfa, piuttosto
mesomorfa, che, stando al Semiologo Gastronomo, è il tipo che, più di tutti,
impazzisce per il “tonno alla calabrese” mangiato insieme a un Poeta, così
perversamente logotico che fa del piatto schietto di Pizzo, non la mummificata
tentazione da pasto invernale da entroterra con baccalà, acciughe dissalate e
involtini d’aringa ma, la succosa Violazione
di Murat[vi]
che, racchiudendo il cappero come punctum
di una supposta peccaminosità inesistente, schiude il mistero sui mandanti
del Lafcadio Incaricato: i produttori del tonno in scatola?
Gli Inquirenti e il Semiologo Gastronomo, presupponendo l’immoralità
del piatto e la poesia delle acque del Golfo di S.Eufemia(in relazione alle
acque del Mekong di cui si riferisce alla nota 1.), fecero il passo più lungo
della gamba.
Perché?
Perché Broussard è, sì, Poeta, ma non “lirico”, è Poeta “epifanico”,
capace perciò di avere, per le acque del Mekong, non le immagini
lirico-sessuali di cui alla nota 1. Ma, immagini come
“i capelli, le teste
senza corpo
i corpi abbandonati a
Preybang
che noia il sabato
sera se
non ci fosse l’operazione
ricreativa
s’abbandona il corpo
nel flusso
-che stanchezza
gli avvenimenti del
giorno
le vittime
le foto in basso
lei balla aderisce
i cazzi sul Mekong
galleggiano”[vii].
Per questo, fecero del “tonno alla calabrese” un espediente per
scovare, in una ricetta ritenuta immorale, la chiave di un Assassinio, che,
invece, fu eseguito, sì, nelle acque di Pizzo ma, non dopo aver mangiato,
insieme a una nordica longilinea mesomorfa il tonno alla calabrese di cui alla
ricetta ma, consistenti insalate di tonno (non fresco, in scatole della migliore
produzione di Callipo e Sardanelli) e cipolla di Tropea, il piatto re dei poeti
e dei navigatori, dei mari e dei letti.
Come scrisse il Poeta di Pizzo:
“L’universo perde se
stesso con i suoi uomini a gruppi o ad uno ad uno.
Passano i suoi
arcobaleni, le sue frutta, le sue radici”[viii]?
Ma il tonno, rifrazione della Luna,
“è il battito più
vecchio scandito dalla sua illusione di spazio”[ix].
Dovrebbero interrogarsi, gli Inquirenti, sulle lunazioni per scoprire
nel “cielo senza vento” il punto che in un istante sopprime il Poeta.
La verità sta nella luna perché si tace sul vino: in Calabria si va
avanti con i mitemi: quando c’è da parlare del vino, degli uomini, dei paesi,
della storia “ammaŝcâta”, si va
sempre a prendere un bel libro della “Calabria Fortunata” del XVII secolo, se
si deve trattare di attualità; se, poi, si deve far tono e storia, Strabone,
Cassiodoro e Plinio.
Il “Balbino” di Altomonte?
Vino nobile, e aspro e generoso. Semper se ipso melius.
Il vino di Cirella?
Ha gusto mirabile, molto apprezzato a Roma.
Adesso? No, nei primi secoli dell’era cristiana.
I vini bianchi di Borgia, Confluenti, Squillace, Soverato, Badolato,
Nicastro ?
Molto rinomati sono.
E Padula, buonanima don Padula di Acri, che scrisse?
In “Calabria prima e dopo l’Unità” descrive accuratamente la tecnica
della preparazione del vigneto e poi ci dà un elenco dei vini della Calabria Settentrionale. Scrive: “ Ad
Aprile 3 uomini bastano a piantare 1000 viti. Uno cava le formelle 3 palmi
lunghe, 2 larghe, 2 profonde. L’altro pianta i magliuoli…” e lui guarda il culo
di Gnesa che va a riempir l’orciuolo alla fonte. Quello che doveva fargli i
magliuoli, mettendo il pedale in faccia ad oriente, s’è messo a dormire, e chi
doveva colmare e pigiare le formelle s’è perso, pure lui, a guardare il culo a
Gnesa…
E allora, stando qui a Pizzo con ‘sto bel tonno di Callipo e la
cipolla di Tropea e non sappiamo che cazzo di vino berci…
Il moscato che si fa col moscatello? Il miglior vino del Tirreno che
si fa a Buonvicino ? Il Lametia d.o.c. ? Niente: quello è “meloccu”[x],
quell’altro è “cifèca”, l’altro è “cicciòffulu” se non è “acquata” o
addirittura “acquaredda”, e lo storico somministra “viscera defecta
costringit/vulnera madida dessiccat/lassum reficit pectus/et quod vix praevalet
implere/potus arte compositus; hic naturaliter/praestat infectus”[xi]
cosicché “di stu vinu sivò ingh’ja na vutta e sivò inghja tutti i costi eppi
dispiettu di miedici e dutturi sbenta da rietu cumm’a ma cannuni”[xii].
Come i Siciliani, che sparano cazzate-barocco, i Calabresi fanno la “pitta
con i frittoli”, sugna, piedi, grugno e cotiche di porco e la Naturalis
Historia di Plinio!
Il Poeta l’hanno “affucatu”…e gli Inquirenti Calabresi citano
Cassiodoro:
“Est enim suavem pinguedine
mollitem crassum,
vivacitatem
firmissimum,
mare violentum,
candore quoque
perspicuum,
quo dita redolet ore
ructatum
ut merito a palma
nomen videatur impositum”[xiii].
[i] “Sono assai eloquenti i
versi di Nyang Pot Troueng, poeta del XVIII secolo, che scrisse sul
Tiatraounga:
Nascondi il nutrimento nell’anima dell’uovo
lascia che fluiscano le acque del Mekong
come fluiscono lisci i tuoi capelli
simili a una sorgente di inutili idee
il tiatraounga nasconde i desideri
come gli occhi chiusi nascondono
l’umidore dei sessi.” : Manuel Vázquez Montalbán, Ricette immorali, trad. it. Feltrinelli,
Milano 1992.
[ii] Cfr. Manuel Vázquez Montalbán,
op.cit. : la ricetta è quella del “Rôti
dell’imperatrice”, che, contenendo rondine, quaglia, pernice, fagiano,
tacchino, maialino, fa di 1 oliva ripiena
il fine e il principio di un piatto eccitante, il punto-gioiello per la
conquista di un vecchio fantasma del narratore spagnolo.
[iii] Un Lafcadio così
corrisponde alla pasticciera della “Marmellata Montserrat” di Vázquez Montalbán
che, dicendo che “ogni mare ha la sua marmellata”, fa prospettare che anche il
mare del Golfo di S.Eufemia abbia le sue signore castane dalle tette morbide e
dalle chiappe consistenti.
[iv] Sempre Manuel Vázquez Montalbán,
ricetta citata.
[v] Il “Puré di tartufi” pare
che sia stato piatto imposto a Diana ogni volta che sedeva al desco della
famiglia reale onde fare innalzare il “dispositivo di sessualità” del principe
del Galles. La prescrizione, dice Vázquez Montalbán, era dovuta a madre regina
Elisabetta II di Inghilterra.
[vi] Il proverbiale modo di
dire “Giacchinu ‘a fa, Giacchìnu ‘a pata”(=Gioacchino la fa, Gioacchino la
subisce) sottende la mancanza, il peccato di Gioacchino Murat che, per una
legge da lui stesso promulgata, e per la quale era comminata la pena di morte
ad ogni civile trovato in possesso d’armi, fu catturato e fucilato dai
pizzitani. Per alleviare il profondo senso di colpa del Conscio Colletivo di
Pizzo, il “tonno alla calabrese” è commutato in “Violazione di Murat”, per cui
i pizzitani possono cancellare “u peccatu ‘i Giacchìnu”. Cfr. Giulio Palange, La Regina dai Tre Seni, Rubbettino,
Soveria Mannelli 1994: pagg.95-96.
[vii] Si tratta di una poesia
del Poetosofo: vedi V.S.Gaudio, La 22^
rivoluzione Solare, Laboratorio delle Arti, Milano 1974. Stesso editore e
stessa collana di Logotica del Poeta
di Pizzo.
[viii] Cfr. la poesia “Tipi di
esplorazione”, pubblicata in: Le
Proporzioni Poetiche, vol. I, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle
Arti, Milano 1971.
[ix] Ibidem.
[x] “Meloccu” è "dolciastro e
sciropposo”; “ciciòffulu” è “oleoso”; “cifèca” è “scadente”, non si riesce a
bere; “acquata” è “assai leggero”; “acquaredda” è il vino “annacquato”.
[xi] “Costringe alla
defecazione le viscere/essicca le ferite sanguinolente/rinfranca il petto
stanco/e quel che appena riesce a dare/uno specifico farmaco, questo vino lo
offre naturalmente col suo liquore”.
[xii] “Di questo vino vuole
riempirsi una botte e se ne vuole riempire tutto il costato e, per dispetto di
medici e dottori, sfiata da dietro come un cannone”: dal latino di Cassiodoro
al dialetto di un motivo popolare.
[xiii] Così Cassiodoro elogia
il Palmatianum, che proveniva dalle
parti di Reggio: “E’ infatti per soave robustezza/delicatamente
denso/vivacemente forte/vigoroso all’olfatto/di colore bianco caratteristico/che
al rutto dà un sapore/che a ragione sembra prendere il sapore della palma”. E
gli Inquirenti “ di stu vinu si vogghieri ingh’ri ‘na vutta(…)e sbentàri da
rietu cumm’a ma cannuni”!...
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L'epifanico Poeta di Pizzo n.8 nella collana di poesia sperimentale "La curva catenaria" del Laboratorio delle Arti di Milano |