Mia cara,
Da tempo distratto pensavo di dedicarti
delle parole. Come ben sai, le parole sono semplici gesti del pensiero. Non mi
piace perder tempo. Me
lo conquisto e sogno del gioco. Così come il gioco rende la luce dei movimenti.
Parlo dei miei dilatati nella parola.
Non so se qualcuno ti abbia mai dedicato
una lettera. Anzi, conosco la risposta. Sì, certo. Ascolto le vibrazioni del
vento tra le fessure assenti della porta. Il pensare mi introduce in un tempo
solcato nelle trame della Terra Desolata. Ma nessuna terra può essere desolata
se esiste il pensiero dell’uomo a nutrirla e a sedimentare tra le rocce
l’immagine di un gioco.
Mia cara amica – spero di
poter chiamarti Amica.
Amica mia preziosa, non esiste un
motivo logico per questa mia lettera. Questo ti rivelo. Intanto passo sulle
unghie un laque civettuoso amaranto tendente al bordeaux – per altro deliziosa
città alla sinistra secondo la cartina geografica, ma al centro del pensiero se
un pensiero a lei si dedica. Sontuosa nell’algido silenzio che imbastisce trame
di storia e di situazioni con i corpi in movimento. Uh! Avverto il soffio e la
fretta di andare.
Chiunque va sempre da qualche parte.
Fa parte tutto di te e tu assisti
leggera alla tua creazione.
Ti chiamerò,Vita. Piccola e intensa
Ladybird. Coccinella di vita e Vita essa stessa. Sovente ho sentito aleggiare
questo nome. Chissà cosa investe in ciascun tempo e di ogni dove – anche adesso
e un attimo dopo il mio adesso ormai trascorso – a osare il tuo nome. Un nome sovente risuona. E’ il tuo. Vita del
vivere. A te è dedicata forse l’immane sofferenza che fertilizza attraverso
spasmi di gioia la visione di una Vita che non un paio di forbici potrebbe mai
recidere.
Io sono a te devota. Strano, dunque,
che ti ritenga mia Amica? Per tua fortuna sei stata e sei fortuna. Continui il
tuo cammino. Talora vestendoti delle cromie dilette di una proiezione. In
piedi, salda nella terra o intenta a sprofondare nelle sabbia calda e gelida
della notte nel deserto. Oppure a saltello sulle rocce e su spuntoni risalendo
un canyon.
Non ho mai risalito un canyon. Ho
risalito il fianco di una cascata e là ho avvertito sensibilmente cosa tu fossi
e cosa fosse respirare te. Vita.
Ho accarezzato le fronde odorose di un
aroma irripetibile. Ho trattenuto un nerbo di albero frondoso per avvertirmi
nella solennità della natura che mi incorniciava il corpo e il volto. Ho
lasciato cadere sul mio corpo tessiture d’acqua gelida e le ho abbracciate nel
linguaggio dell’amare di passione. L’amare del mio sempre presente e dei miei
passati che sono tali solo perché trattengono tempi diversi rispetto ad adesso,
all’oggi e al futuro. Ma che rendono il loro odore come sensazione olfattiva
viva. Presenti.
Mia cara,
Mi piace sorseggiare questi calici
essenziali. Sono nella sensibilità del vivere che infrange lo specchio opaco
del finire. In fondo, nel vivere esiste sempre anche il finire. Il senso e il
non senso. Ma non l’anti senso. Sarebbe allora opportuno parlare della non
vivenza. No. Come si potrebbe coniugare il non vivere nel fondo? O anche non
tanto in fondo. Una sala imbiancata dal bianco della necessità. Preferirei che
le pareti mobili siano nobili colline di colori, sulle quali veder spuntare da
pertugi canterini coniglietti e topolini. Di loro ho scritto e ancora scriverò.
Sei tu che me lo chiedi,Vita. Contraggo lo sguardo. Respingo la luce, ma la
luce mi resta dentro. Affollo pagine nella mente e appongo la parola “fine”
nelle asperità del non scritto e del non detto. Ma sempre ho pensato e a te e
per te ho sempre pensato come corpo. Materia del vivere.
I corpi sono nuvole talora in forma di
densa panna montata. Forse per qualcuno le nuvole sono labirinti in cui
lasciarsi cullare o luoghi in cui trascenderti e sparire. Le nuvole sono favole
e fiabe in forma di aquiloni. Gli aquiloni sono il sogno. Sogno che non sia
bugia. Le bugie dissolvono la vita e il vivere sua ombra. Disturbano e
scardinano le armonie che trattengono sintassi di una storia concepita
attraverso lo scatto fotografico di specchio che allontani la specularità.
Io mi specchio qualche volta. Nello
specchiarmi mi racconto storie diverse perché così ho tante vite e tanti
vivere. Ogni volta sono diversa perché diverso è il tono del vedere all’interno
dello specchio. Supero la lastra e ti incontro in un nuovo appuntamento.
Diventeremo
fiaba e il nostro luogo saranno le nuvole.
Un
aquilone
E’ il tempo, finalmente. Il momento
essenziale del volo.
Le ombre e il fruscio di teneri steli
d’erba roridi di rugiada accompagnano il canto silenzioso del volo. Intorno
alla manopola la corda si tende e qualcosa inizia ad accelerare la corsa
verticale.
Lo sguardo punta su nel cielo. Gli
occhi strizzano accecati dalla luce impossibile di un sole che sconvolge. E’ infine
meta. Volerà l’aquilone verso quel sole e punterà in alto. Sarà un volo
obliquo, in sospensione tra il cielo e la terra. Tra l’incognito aire e la
determinante energia che spinge dal terreno. Forzerà i limiti contenutistici
della gravità. Traslerà in un disegno secondo il quale realizzare il suo sogno.
Nel suo momento.
Il volo-aquilone vivrà le cose. Primo
attore di passaggi tra le nuvole.
Lontano, continuerà a librare
nell’aria seguendo un suo ritmo, spinto dalla brezza e dondolando nel vento.
Frusciante e disinibito con il suo vorticare intenso e deciso, morbido,
vellutato nel solco di passi invisibili.
Arcana mistura di essere ed esistere,
il mio aquilone ha una densità riscontrabile in null’altro. Particolare
tracciato nel cielo, imbrunisce le zolle e conversa con le nuvole. Si frantuma
in miriadi di materici pensieri che si adagiano in contesti funambolici e formulano
spazi nuovi in spazi vissuti. Diviene centro pulsante di un momento di nettezza
oltre la quiete talora turbolenta del terreno calpestato.
Segue suoi tracciati, attinge a nuove
traiettorie. Respira il vento e lo detiene fino a diventare alito di vento.
Tempo minimo e sfuggente.
Creazione di parole mute ritratte
nella mutevolezza di un privatissimo spazio cadenzato da una musicalità che
adombra le sfrenate corse di note su spartiti già scritti.
La manopola preme e la fune sfugge
via, distante dal suo centro. Alla ricerca di nuovi centri e nuove mete alle
quali affezionarsi con la verbosità di un segno. Nella vaghezza del pensiero
che pulsa nei silenzi.
Un aquilone. Uno tra milioni. Un
rombo di carta velina e quattro legnetti fragili.
Un aquilone. Uno e ancora un altro.
Infinite realtà dissimili eppure coincidenti nell’ambizione di distanziarsi dai
cosa, dai chi e dai come, trattenendo
la roccia semimobile dell’essere in continuo viaggio. Un’illusione di fuga, un
disegno nuovo, una prospettiva di traslazione per desiderare di andare dove
senza uscire mai.
La fune di un bambino immerso nel
gioco visionario decide una traiettoria.
Il bambino adulto darà una duplice
significazione al suo aquilone.
La fune si trasforma senza alcuna
malia in una catena possente, energica.
Il velo di carta segna nel tempo il
suo passaggio e si lascia avvolgere dal suo vento lungo una qualunque Route 66.
Carmen De Stasio