Carmen De Stasio ░ Ladybird



Mia cara,
Da tempo distratto pensavo di dedicarti delle parole. Come ben sai, le parole sono semplici gesti del pensiero. Non mi piace perder tempo. Me lo conquisto e sogno del gioco. Così come il gioco rende la luce dei movimenti. Parlo dei miei dilatati nella parola.
         Non so se qualcuno ti abbia mai dedicato una lettera. Anzi, conosco la risposta. Sì, certo. Ascolto le vibrazioni del vento tra le fessure assenti della porta. Il pensare mi introduce in un tempo solcato nelle trame della Terra Desolata. Ma nessuna terra può essere desolata se esiste il pensiero dell’uomo a nutrirla e a sedimentare tra le rocce l’immagine di un gioco.
                   Mia cara amica – spero di poter chiamarti Amica.
         Amica mia preziosa, non esiste un motivo logico per questa mia lettera. Questo ti rivelo. Intanto passo sulle unghie un laque civettuoso amaranto tendente al bordeaux – per altro deliziosa città alla sinistra secondo la cartina geografica, ma al centro del pensiero se un pensiero a lei si dedica. Sontuosa nell’algido silenzio che imbastisce trame di storia e di situazioni con i corpi in movimento. Uh! Avverto il soffio e la fretta di andare.
Chiunque va sempre da qualche parte.
Fa parte tutto di te e tu assisti leggera alla tua creazione.
         Ti chiamerò,Vita. Piccola e intensa Ladybird. Coccinella di vita e Vita essa stessa. Sovente ho sentito aleggiare questo nome. Chissà cosa investe in ciascun tempo e di ogni dove – anche adesso e un attimo dopo il mio adesso ormai trascorso – a osare il tuo nome.  Un nome sovente risuona. E’ il tuo. Vita del vivere. A te è dedicata forse l’immane sofferenza che fertilizza attraverso spasmi di gioia la visione di una Vita che non un paio di forbici potrebbe mai recidere.
         Io sono a te devota. Strano, dunque, che ti ritenga mia Amica? Per tua fortuna sei stata e sei fortuna. Continui il tuo cammino. Talora vestendoti delle cromie dilette di una proiezione. In piedi, salda nella terra o intenta a sprofondare nelle sabbia calda e gelida della notte nel deserto. Oppure a saltello sulle rocce e su spuntoni risalendo un canyon.
         Non ho mai risalito un canyon. Ho risalito il fianco di una cascata e là ho avvertito sensibilmente cosa tu fossi e cosa fosse respirare te. Vita.
         Ho accarezzato le fronde odorose di un aroma irripetibile. Ho trattenuto un nerbo di albero frondoso per avvertirmi nella solennità della natura che mi incorniciava il corpo e il volto. Ho lasciato cadere sul mio corpo tessiture d’acqua gelida e le ho abbracciate nel linguaggio dell’amare di passione. L’amare del mio sempre presente e dei miei passati che sono tali solo perché trattengono tempi diversi rispetto ad adesso, all’oggi e al futuro. Ma che rendono il loro odore come sensazione olfattiva viva. Presenti.
         Mia cara,
         Mi piace sorseggiare questi calici essenziali. Sono nella sensibilità del vivere che infrange lo specchio opaco del finire. In fondo, nel vivere esiste sempre anche il finire. Il senso e il non senso. Ma non l’anti senso. Sarebbe allora opportuno parlare della non vivenza. No. Come si potrebbe coniugare il non vivere nel fondo? O anche non tanto in fondo. Una sala imbiancata dal bianco della necessità. Preferirei che le pareti mobili siano nobili colline di colori, sulle quali veder spuntare da pertugi canterini coniglietti e topolini. Di loro ho scritto e ancora scriverò. Sei tu che me lo chiedi,Vita. Contraggo lo sguardo. Respingo la luce, ma la luce mi resta dentro. Affollo pagine nella mente e appongo la parola “fine” nelle asperità del non scritto e del non detto. Ma sempre ho pensato e a te e per te ho sempre pensato come corpo. Materia del vivere.
         I corpi sono nuvole talora in forma di densa panna montata. Forse per qualcuno le nuvole sono labirinti in cui lasciarsi cullare o luoghi in cui trascenderti e sparire. Le nuvole sono favole e fiabe in forma di aquiloni. Gli aquiloni sono il sogno. Sogno che non sia bugia. Le bugie dissolvono la vita e il vivere sua ombra. Disturbano e scardinano le armonie che trattengono sintassi di una storia concepita attraverso lo scatto fotografico di specchio che allontani la specularità.
         Io mi specchio qualche volta. Nello specchiarmi mi racconto storie diverse perché così ho tante vite e tanti vivere. Ogni volta sono diversa perché diverso è il tono del vedere all’interno dello specchio. Supero la lastra e ti incontro in un nuovo appuntamento.
Nel frattempo ondeggio con il mio aquilone.
© anonima del gaud by awelltraveledwoman


Diventeremo fiaba e il nostro luogo saranno le nuvole.               
                                                                                
                                                                Un aquilone

E’ il tempo, finalmente. Il momento essenziale del volo.
Le ombre e il fruscio di teneri steli d’erba roridi di rugiada accompagnano il canto silenzioso del volo. Intorno alla manopola la corda si tende e qualcosa inizia ad accelerare la corsa verticale.
Lo sguardo punta su nel cielo. Gli occhi strizzano accecati dalla luce impossibile di un sole che sconvolge. E’ infine meta. Volerà l’aquilone verso quel sole e punterà in alto. Sarà un volo obliquo, in sospensione tra il cielo e la terra. Tra l’incognito aire e la determinante energia che spinge dal terreno. Forzerà i limiti contenutistici della gravità. Traslerà in un disegno secondo il quale realizzare il suo sogno. Nel suo momento.  
Il volo-aquilone vivrà le cose. Primo attore di passaggi tra le nuvole.
Lontano, continuerà a librare nell’aria seguendo un suo ritmo, spinto dalla brezza e dondolando nel vento. Frusciante e disinibito con il suo vorticare intenso e deciso, morbido, vellutato nel solco di passi invisibili.
Arcana mistura di essere ed esistere, il mio aquilone ha una densità riscontrabile in null’altro. Particolare tracciato nel cielo, imbrunisce le zolle e conversa con le nuvole. Si frantuma in miriadi di materici pensieri che si adagiano in contesti funambolici e formulano spazi nuovi in spazi vissuti. Diviene centro pulsante di un momento di nettezza oltre la quiete talora turbolenta del terreno calpestato.
Segue suoi tracciati, attinge a nuove traiettorie. Respira il vento e lo detiene fino a diventare alito di vento. Tempo minimo e sfuggente.
Creazione di parole mute ritratte nella mutevolezza di un privatissimo spazio cadenzato da una musicalità che adombra le sfrenate corse di note su spartiti già scritti.
La manopola preme e la fune sfugge via, distante dal suo centro. Alla ricerca di nuovi centri e nuove mete alle quali affezionarsi con la verbosità di un segno. Nella vaghezza del pensiero che pulsa nei silenzi.
Un aquilone. Uno tra milioni. Un rombo di carta velina e quattro legnetti fragili.
Un aquilone. Uno e ancora un altro. Infinite realtà dissimili eppure coincidenti nell’ambizione di distanziarsi dai cosa, dai chi e dai come, trattenendo la roccia semimobile dell’essere in continuo viaggio. Un’illusione di fuga, un disegno nuovo, una prospettiva di traslazione per desiderare di andare dove senza uscire mai.
La fune di un bambino immerso nel gioco visionario decide una traiettoria.
Il bambino adulto darà una duplice significazione al suo aquilone.
La fune si trasforma senza alcuna malia in una catena possente, energica.
Il velo di carta segna nel tempo il suo passaggio e si lascia avvolgere dal suo vento lungo una qualunque Route 66.

Carmen De Stasio