Il libro oggetto , o d'artista, che sigilla nel settembre 1984 la collana de "I libri del triangolo d'oro" delle edizioni "Il Piombino" di Alessandria: V.S.Gaudio ▼La Stimmung del 2 marzo 1979 con Marcelin Pleynet
NOSTALGIA DELL’ARTE O IL LIBRO PER ANTONOMASIA
Libro viene dal latino liber. Che,
all’origine, era il nome della corteccia dell’albero.
Di questa materia,
dunque, era fatto inizialmente il libro. Cioè, da un avvolgimento, che veniva
svolto. Da un rovesciamento del guanto di un individuo del bosco. Dalla
liberazione di un tubo, da una destrutturazione si liberava il libro.
A opera, ovviamente, di
pazienti esecutori, artigiani, prevalentemente schiavi. Perché puntualmente
anche allora si ubbidiva alla cosiddetta “eterogenesi dei fini”. Solo che non
lo sapevano. Né lo sappiamo mai adeguatamente. In questo caso, gli schiavi e i
loro compagni di fatica hanno aperto la porta alla libertà dell’albero, cioè di
una parte arborea, e si è attivato un vento che ha smosso i secoli, che ha
fatto lievitare l’immaginario delle generazioni.
(Se tanto è accaduto in
relazione a una parte, che bisognerebbe figurarsi della liberazione totale
dell’albero? Ma occorrerebbe pensarci su, finché questo nostro antico fratello
e amico non verrà soppiantato da suoi simili di plastica).
Intanto, col trascorrere
del tempo, le antiche cosmogonie si indeboliscono, altre narrazioni si vulgano,
legate alle oscillazioni di mercato, ai cambiamenti dei sistemi di produzione.
Così, nel nostro tempo
(di affluenza e di globalizzazione eteroautodirette), il racconto concernente
il libro si nutre di dichiarazioni e predizioni sul destino dei simulacri,
sulle implosioni del postumo. Sono oracoli di incombente funebrità, di
sfaldamenti di tautologie. Quasi di sprechi del superfluo.
All’interno di queste
topiche, non si può non riconoscere che il libro è un vizio, naturalmente di
chi se lo può consentire o di chi non ne può fare a meno, pena la crisi di
astinenza.
Ma c’è vizio e vizio. C’è
il vizio dell’avere e il vizio del dare, nettamente distinti. L’avere è per
ammassare mattoni, reali o ideali, foderarsi materialmente la solitudine.
Costruirsi la gabbia dell’insonnia lucida, ininterrotta, una vigilia di
quell’altra veglia che è la morte. (Si ringrazia il filosofo Gargani, per il
suggerimento dell’insonnia). Il dare è per riempire il concavo del mondo, la
sua cedevole reticolarità.
Il dare, che non è poi,
prescritto dal medico ed è di pratica rada, può riuscire igienico nel contesto
generalizzato e abusato dell’avere: può generare curiosità, pausa di
riflessione. Segnala, comunque, interruzione di consuetudine massificatrice.
Ecco dove stanno piantate
le ragioni del libro d’artista: generare suspense, indicare improvvisamente uno
spazio altro dove lo scorrimento del traffico si sottrae all’unidirezionalità e
si possono aprire opportunità per le invenzioni e le abilità individuali. Come
avviene nel traffico a Napoli o Istanbul. Qui, ad esempio, in mezzo a uno
sperpetuo di traffico di processioni mortuarie o di dense vischiosità, uno, se
ci sa fare, può aprirsi un varco e immettersi su una pista da Indianapolis. La
pista era lì e nessuno la vedeva. E tante altre stanno lì, continuano a stare
lì, bisogna solo scoprirle e adoperarle.
Il gesto, quindi, che è dentro
al libro d’artista, porta in sé una carica di ribellione o di divaricazione
dalla scontatezza, ma anche di verifica delle proprie potenzialità e di
ricognizione delle risorse di vitalità. È una prova di riflessione sul sé, come
laboratorio di linguaggio, di gusto, di dinamismi più generali. Autoriflessione
dell’individuo come autoriflessione sulla magmaticità della comunicazione e
dell’arte.
È l’anello tra il
concetto e la materialità, per saggiare la consistenza dei postulati o delle
ipotesi. I quali, per essere – non bisognerebbe mai dimenticarlo – devono
calarsi nella concretezza e nella particolarità dell’effettuale, con una
rinunzia perentoria all’indeterminatezza e al possibile molteplice.
Il fondamentale è la
materialità. Questi giorni (settembre 2002), Tullio Regge sul “Corriere della
Sera” ha dato notizia che forse si è giunti alla costruzione dell’antimateria.
La quale è impalpabile e invisibile, ma si costituisce sempre sul registro
della materialità, se la sua cifra è di segni rovesciati della materia. Così,
quando si incontrano, materia e antimateria, vanno a una resa di conti finale.
Scatta il dramma dell’annullamento.
Lo scienziato, inoltre,
parlava di corpi astrali, aggirantisi nello spazio, ormai spenti, precipitati
nella propria rovina come in una voragine di depressione, ridotti ormai allo
stato di calcinacci. Ma un cucchiaio di quella materia, abbattutasi in sé
stessa, è tale da poter formare una catena di monti su un pianeta.
La materialità, quindi,
si fa culla di manipolabilità, di fabbricabilità, di modificabilità.
Le opportunità del porsi
in essere attraverso la corporeità e l’oggettualità interroga l’arte del libro
d’artista. Che, a monte, rimembra lo scortecciamento dell’albero, per farne
materia di squadernamenti, supporti di graffiti, tessuti già pieni di una
formicolante interrelazione di segni. Che, intanto, a valle, guarda a frontiere
in movimento, a comunicazioni poliseme e simultanee, alla delineazione di
geometrie frattali, all’implausibilità dell’assenza e del vuoto.
Tutto ciò in mezzo a un
implodere di frammenti e a flussi sempre più consistenti e pervasivi di
oggettualità e di visibilità. In omologia, potrebbe sembrare, col più generale
diluvio di un mondo che si dà in quanto fenomenizzarsi di oggetti.
Qui, però, la diversione
è programmata e prescritta protocollarmente nel disoccultamento del latente,
mentre di contro la colluvie dell’affluenza va unidirezionalmente, fatalmente
verso la cancellazione delle differenze.
Il libro d’artista in
quanto opera si connota aprioristicamente come operazione di intensificazione
di espressività, come crocevia di significazioni, come simultaneità di
illusioni e allusioni, palinsesto di sovrapposizioni, di cancellazioni che
spingono alla luce e all’essere tensioni impreviste.
Non spalmazione, dunque,
della marmellata sulla faccia della realtà. Niente preconfezionamenti da
mandare in giro pronti all’usa e getta.
Rivendicazione, invece,
della particolarità e dell’identità. Attraverso la simbiosi di testo, pretesto
ed extratesto e i rovesciamenti dei dinamismi del materiale all’ideale e
viceversa. Eccitazione di transfert e di sinestesie.
Ma, soprattutto, un
calarsi nel tempo con un’icasticità drammatica, ad accettazione totale e
definitiva del Da-sein. Perché si è,
in quanto si è dentro.
Così, il libro d’artista
viaggia verso l’autoappropriazione, l’autoriflessione, veicolando messaggi a parte obiecti di analisi impietose
sul conto dell’Io e della soggettività.
L’accettazione delle
circostanze come destino definitivo dà energia e consapevolezza etica
all’operazione, piantandola in un qui e ora ineludibili. Ne conseguono due
movimenti: l’uno verso il rifiuto degli assi e delle dimensioni della
metastoricità, l’altro verso l’abbattimento dell’auralità. Essa, inoltre,
induce contemporaneamente a un rigoroso esercizio di umiltà, in quanto la
materialità marca la perentoria sua deperibilità, la sua vocazione al basso.
Infine, il rafforzamento
del nesso idea-corpo dichiara l’eteronomia sia del testo, sia dell’extratesto:
l’uno vive d’impulso dell’altro e, anche se tende a rivendicare un proprio
primato, in qualsiasi stadio non può non certificare le relazioni fondanti con
l’altro. Nel testo, permane sempre un residuo di materialità; nel corporeo o
extratesto pulsa ininterrottamente una tensione ideale.
Ugo
Piscopo
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