Ignazio Apolloni ░ Tra Roma e Los Angeles

TRA ROMA E LOS ANGELES



            La mattina di un giorno imprecisato del 1960 Filippo Tedeschi fumava, affacciato alla finestra che dava sulla piazza della stazione. Più che fumare mordicchiava la sigaretta, come suo solito. Per questo particolare vezzo – che gli conferiva una espressione quasi sempre allegra, divertita – i suoi denti erano diventati scuri, del colore della pece. Mai però che il fumo della sigaretta (non ne ricordo la marca preferita) fosse sgradevole. Gradevole sopratutto diveniva il parlare con lui, portato com’era alle divagazioni: dalle sue avventure particolari – tutte vere, seppi dopo – a certe fantasticherie poetico-visive.
Avevamo passato la serata insieme, io, lui e sua nipote Anna figlia di suo fratello Mario. Giù in trattoria, la prima a sinistra sulla Via Tiburtina. Gran mangiatore di bucatini all’amatriciana. Bevitore (per affogare i ricordi). Portato all’affabulazione se trovava (e spesso si sceglieva) l’interlocutore giusto. Conosciuto tra Roma e Firenze per la sua loquacità lasciava sempre un segno della sua presenza. Non diversamente quella sera. Entrando aveva chiesto se ci fossero trote vive. Voleva offrirmi qualcosa di prelibato, insolito in una città più nota per l’abbacchio o i carciofi alla giudia che non per il pesce, sia pure di acqua dolce. Quella era ancora epoca in cui nelle grandi paranze calate dai barconi fermi agli argini dell’Aniene poteva succedere di trovarcene tanti. Diverso per le trote. Arrivavano direttamente ad alcuni locali col contagocce. Dentro vasche alimentate da acqua corrente, sarebbero rimaste fino a quando un avventore non ne avesse indicato una da fare alla griglia o al cartoccio. Tra uno stupore in me che lo ascoltavo; una boccata di fumo dalla sigaretta stretta tra i denti; un goccio di vino bianco, sorseggiato come fosse una reliquia da ultima cena, slacciava il cordone dei suoi ricordi e – divagando da un argomento all’altro suggeritogli da una osservazione mia o di sua nipote – poteva anche cominciare a declamare versi tratti dalla sua composizione più triste. Il cui titolo ancora mi risuona nella mente e mi lascia ritornare indietro nel tempo, a quando fui ospite suo per qualche tempo.
Via Camesena, angolo con Via Tiburtina. Al di là della piazza il Verano. Lugubre per i cipressi e per le mura che vorrebbero farne un luogo di riposo. Presenza oppressiva, non fosse che sotto il ponte ci scorrevano treni a vapore e al di là si intravedevano gli edifici dell’Università. Alla stagnazione, alla stasi motoria si può dunque contrapporre la vivacità delle nuvole in cui si condensavano i vapori prodotti dall’ebollizione dell’acqua dentro le caldaie delle locomotive. Ad aggiungere un tocco di calore a tutto quel bianco l’azzurro pallido del cielo o il rosso ocra della stazione ferroviaria. Filippo Tedeschi sta fumando pure lui. La sua caldaia durante la notte ha ripreso vigore. Nelle due ore trascorse tra un antipasto di funghi trifolati, salamini del Terminillo, i bucatini con la pancetta e il pecorino, la trota avvolta nella carta stagnola come fosse stata la sua pelle, ne ha snocciolate di cose. Per brevi flash ha fatto rivivere Laura, la Carnia, la tipografia da cui è nato come imprenditore. Il successo gli è arriso, ne ride. Essendo la parabola della sua vita prossima a toccare lo zero assoluto potrebbe risultare il suo eloquio un vaniloquio. E invece eccolo lì a dire di quando e di dove. E noi che attendiamo di sapere da lui quel quando e quel dove.
Fuma, Filippo Tedeschi, e sono le cinque del mattino. Dovremmo essere in maggio. Un mese che risveglia di solito memorie sopite, tentazioni esistenziali. Si è lasciato sfuggire che ha cominciato a scrivere quel suo poema “Sputa sull’ultima favilla” quando la sua storia d’amore e di epos si era definitivamente esaurita. Andata. Come tutte le storie vere da cui si possa trarre un romanzo. Senza un lieto fine. Anzi con una fine che sta per schiantarlo. Prima di scrivere l’ultimo verso, la chiusa, vuole declamare la sua nostalgia. Ha bisogno però di un ascoltatore paziente, uno scriba che ne registri i clamori delle ultime lotte per fare sopravvivere ciò che inesorabilmente sta spegnendosi; o un cantore che affidi poi alla sua penna la straziante melodia delle strofe del canto recitate a memoria. Deve averle lette e rilette chissà, almeno mille volte (le mille serate ormai trascorse senza di lei). La memoria ancora non gli fa difetto. L’alimenta la crudeltà di un destino che ora lo vede nella solitudine dei suoi tempi morti. È per riempirli di sangue vivo, per ridarsi dell’argento vivo che ci porta spesso a cena fuori. In quelle trattorie si farà colossali mangiate di abbacchio o porchetta con contorno di indivia e rughetta. E per vino quello dei Castelli.
Ci portò una volta a Genzano, con la sua Aprilia. Finestrini abbassati. Capigliatura al vento quella sua e di Anna (la prediletta delle sue nipoti, per l’intraprendenza che gliela faceva somigliare). Ubriacatura generale data dalla terra grassa in cui pascolavano lente le mucche a dire di cosa ci attendesse all’arrivo in trattoria. Cesare che ci viene incontro, lo saluta festosamente mentre si asciuga le mani nel grembiulone già sporco di salsa. Gli preannuncia tagliatelle di pasta all’uovo, spianate e tagliate dalla moglie in cucina. Ci fa persino entrare. La moglie – la Cesarina – ci riceve con un sorriso che le corre da un orecchio all’altro. Ha appena alzato lo sguardo. Riprende quindi a lavorare col mattarello. Brevi battute sulla funzione di questo strumento, autentico strumento di torture per la farina e le uova se devono trasformarsi in pasta per una giornata di delizie. Fu delizioso il pranzo, all’aperto, sotto la pergola mentre uno stornellatore ci racconta di quando i castelli stavano per gite fuori porta. Non meno delizioso lo sguardo stupefatto di Filippo Tedeschi. Gli si stava irrorando il sangue di nuova linfa. Per qualche ora avrebbe potuto ritornare a parlare e sognare di Laura.
Che tipo, il Filippo. Alto non meno di uno e ottanta. Generoso al punto da avere intestato molti dei suoi beni al fratello e al nipote. Amante della musica lirica volle lanciare la sfida a chi non avrebbe puntato un centesimo su quella voce da mezzo soprano. La fece educare. Passò le sue più belle ore in estasi appoggiato sulla coda del piano mentre il maestro (un certo Schubert, incredibile ma vero) le faceva fare i gorgheggi. Cosa non avrebbe fatto il Filippo. Cosa non fece. Si sarebbe atteso una gratitudine almeno, al posto di un amore che aveva ormai fatto il suo tempo. Nemmeno quella!
Cominciai a conoscere la figura di quella donna attraverso le sue farneticazioni. Se, in macchina, sentiva il canto di una sirena quella era Laura; se i suoi occhi incrociavano quelli di un ritratto alla parete di fronte ci vedeva la giovinetta jugoslava conosciuta a Lubjanka; se a servirci a tavola era una bionda formosa diceva che tale non poteva non essere diventata: effetto della bulimia per averlo lasciato. Farneticava. Fumava. Entrava nelle volute delle nuvolette che gli uscivano come gusci di uovo dalla bocca. Ci guardava con tenerezza e diceva che saremmo stati felici.
In casa aveva la collezione intera de La difesa della Razza. In quanto sospettato di essere ebreo – per via del nome – all’epoca dei rastrellamenti aveva trovato rifugio in un monastero. Presso a poco stessa cosa era accaduta a suo fratello. Sopravvenuti gli americani, liberata la città di Roma seguirono anni di euforia. In quanto ex tipografo si inventò la qualità di editore. Comprò la testata di una rivista di studi filosofici. Si contornò di filosofi del precedente regime. Ebbe persino la collaborazione di Benedetto Croce in un raro momento in cui ebbe ad aprirsi al pensiero liberale. Non durò. Fece mega progetti. Cassino, una cartiera alimentata non si sa da quali acque. La Cassa per il Mezzogiorno. Bussò a cassa. Ebbe il viatico di un certo ministro per il Mezzogiorno e l’appoggio delle campane suonate a festa per il risveglio che quella plaga avrebbe avuto. Ciò che non avevano provocato le bombe e i combattimenti tra tedeschi abbarbicati nel monastero trasformato in bunker e i polacchi che vi morirono a migliaia fece il Filippo Tedeschi.
Suo figlio. Pilota di go-kart. Più bello di un angelo. Di lui si era innamorata – segretamente – Anna. Lo descriveva come uno spericolato, di maniere raffinate, sfuggente. Lei ne aveva cercato lo sguardo, desiderato un complimento. L’aveva trattata invece da mocciosa.
E dire che quanto a seno a quattordici anni poteva già considerarsi donna. Peccato che le rimase così piccolo da trasformarla in un passerotto impaurito, timorosa di sentirsi schiacciare dal peso di una famiglia senza un futuro certo. Fosse mancato l’appoggio di zio Filippo.
Chi era costui? E come si fa a dirlo. Ricordo la sigaretta perennemente accesa. Le mani mobili. L’eloquio fluente. Mi parlava di un noto avvocato solito rifiutare di stringere la mano di chi stesse per accomiatarsi e provava però lo stesso ribrezzo per quell’avvocato al pensiero di quanto fosse poco signore. Enumerava le persone corrotte con cui era entrato in contatto o cui aveva versato tangenti (trattenendone però per sé una buona parte). Ebbe una parte di un certo rilievo nel tentativo di colpo di Stato del generale Di Lorenzo e fu proprietario occulto del quotidiano La folla (un misto di qualunquismo e fascismo). Tentò di tirarmici dentro. Cozzò duro. Fu più malleabile il figlio di suo fratello. Nel gioco delle parti il Filippo ebbe la peggio. Non gli rimaneva che darsi ancora una volta ai ricordi.
Ricordo che un giorno mi disse. Sto per partire. Non posso dirti dove vado. Gli lessi dentro. Capii dalle sue orecchie divenute stranamente grandi come stesse per andare a morire nel cimitero degli elefanti. Non tornerò, almeno così mi disse. Frattanto io stavo lasciando l’Italia a bordo dell’Indipendence.
Vista dal mare la costa orientale dell’America non si capiva quanto fosse lontana. Intanto la fantasia immaginava il profilo della costa a sud del Canada fino a New York. Blocchi di ghiaccio sull’Hudson. Fango sulle strade. Copertoni che schizzano acqua fino all’altezza della capote delle macchine parcheggiate ai lati della strada. Giubboni di stoffa pesante e a quadri scozzesi. Guantoni. Berretti con paraorecchie. Freddo e neve dappertutto. Alberi spogli. Vetrine ed insegne. Negozi tappati contro il freddo pungente. Tubi degli estintori stradali che scoppiano. Al di là del finestrino mi appare l’immagine del sor Filippo (come lo chiamava il pizzicagnolo di Via Tiburtina). Sorriso sornione. Sguardo bonario, paterno. Gettò una boccata di fumo, forse a dirmi che stavo per entrare nel fumo della Storia. Appannò il vetro. Non vidi altro. Sedette accanto a me durante la serata di festeggiamenti per il nostro arrivo. Lo presentai ai commensali (bicchieri di Chianti, fatto in casa, durante il proibizionismo; bottiglie conservate in cantina da zio Simone: il vinaio della famiglia). Nemmeno si accorse che era solo un fantasma.

Ma adesso che ero a Los Angeles, ricercatore alla Royce Hall, mi domandavo cosa stesse facendo lo zio Filippo. Me lo domandavo tra la lettura di un testo in sanscrito e un altro in lingua sufica. Il mio compito? Decifrare e tradurre in caratteri intellegibili la sapienza mistica di quei saggi. Dove stava l’inizio e dove la fine? Qualcosa sull’inizio si cominciava a sapere (ma contraddiceva le intuizioni di quei pensatori); quanto alla fine il buio era così fitto da potersi tagliare col coltello. Non mi avevano dato la borsa di studio per farne una vacanza: mi si chiedeva un libro (tanto meglio se potesse diventare Il libro dei libri). La tentazione di bleffare? Sempre più forte; quella di scrivere su Filippo Tedeschi: un rinnegato per alcuni, un converso per altri, ancora maggiore. Mi induceva a sceverarne la personalità la sua grazia nel tenere la sigaretta tra le dita (allorché, solo raramente, ciò succedeva); la sua allegria contagiosa (quando poteva parlava della miopia dei lilliput con cui veniva in contatto tutti i giorni); la sua filosofia errante, da ebreo errante. Eppure era riuscito a ingannare i tedeschi in Carnia con il semplice mettersi in testa uno dei loro elmetti. Aveva persino stampato i francobolli per il Gauleiter, regolarmente caratterizzati dalla svastica da truppe di occupazione. Sicuro di quanto un giorno potessero valere quei fogli se ne era conservati tanti da riempire una valigia. Avrebbe voluto offrirmene. Li rifiutai. Mi faceva ribrezzo la svastica. Mi si sarebbe bruciato la lingua avessi provato a leccarli per affrancare una qualche lettera. Si rafforzò tra di noi l’intesa quando seppe di Teresa, sopravvissuta al ghetto di Varsavia in rivolta, della quale cominciavo a sapere quanto basta per averne fin sopra i capelli di tedeschi e nazisti.
Allora, non si sa bene perché, l’Università di Roma era preda di studenti violenti, ultranazionalisti. Roma sembrava non aver dimenticato la grandezza dei Cesari e la potenza soggiogatrice della Chiesa cattolica. Vietato esporre icone diverse da quelle fasciste (il labaro o il fascio littorio), oppure di quelle della religione di Stato (il crocifisso, ad esempio, come principale ornamento del collo scoperto di ragazze e talvolta annodato strettamente alla catena d’oro, regalo di battesimo, quasi a proteggerti da disgrazie). Amuleti certamente questi simboli – impregnati gli uni e gli altri di religiosità squisitamente irrazionale – ma tali da portarti al delirio in certe circostanze. Ne avevano scoperto la magia i crociati; si erano immolati i primi martiri cristiani dichiarati poi santi; finiti nel rogo alcuni per averne rifiutato il valore trascendente. Di questo si parlava con Filippo Tedeschi: un reprobo per il fatto di essere di origine ebraica, secondo chi l’avrebbe volentieri offerto in pasto ai nazisti per un piatto di lenticchie o poco più; una delle persone più ricche di intelligenza e di pathos con cui mi sia mai cimentato rimanendone plasmato per tutta la vita.
Perché intelligente? Uomo dal raffinato senso dell’umorismo e dell’autoironia alla tipica moda ebraica (il cui rappresentante ultimo oggi può considerarsi Nathan Englander): capace cioè di farti ridere per l’autocommiserazione che aveva di sé quale talent-scout rimasto però solo scout; esilarante nella risata contagiosa se – senza alcuna malevolenza – enumerava i difetti degli altri e l’incapacità propria di correggersi; funambolo nell’articolare il pensiero sia che parlasse dei limiti della parola sia che provasse a scardinarne il senso riusciva a intuire quale fosse il momento di dire basta per non appesantire con i discorsi la digestione. Si usciva dalla trattoria con il classico frizzichino in testa dato dal Cannellino di Orvieto – servito abbondantemente da Ciro o da Berto: il trattore di turno – e dalle costruzioni immaginifiche delle sue parabole. Non era facile seguirlo, per le innumerevoli digressioni con le quali infiorava l’eloquio ma c’era sempre da domandarsi – secondo il detto popolare – “Parabola significa”? Bisognava dunque decrittare i messaggi, decifrarne le arguzie. Stanco ma felice della scoperta di un alieno poggiavo la guancia nel cuscino e la sentivo infiammarsi al contatto con la miriade dei suoni da lui emessi che partendo dal cerebro si riversavano nella coscienza che di lì a poco si sarebbe trasformata in una successione di sogni.
Smisi di sognare, persino di avere allucinazioni quando seppi che zio Filippo non c’era più: era scomparso un grande. Adesso che l’ho riportato alla mia memoria e ne ho scritto, sia pure pochi momenti della sua immaginifica presenza nel mondo, mi sento appagato e avverto la gratitudine di chi ebbe a conoscerlo senza tuttavia apprezzarlo, come invece sarebbe stato giusto.


Ignazio Apolloni
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$Ignazio Apolloni ░ Racconti cinematici e cinematografici ░ edizioni Arianna Palermo 2013

Ignazio Apolloni ░ Racconti cinematici e cinematografici 
"C’è tutto Apolloni in questo movimento, organizzato o irregolare poco importa, dal nonnulla alla favola; in questa storia che – diceva bene Giuliano Gramigna parlando di Gilberte, romanzo del 1994 – si versa senza badare alla coerenza. In ciascuno dei trentotto Racconti cinematici e cinematografici il movimento dell’immaginazione conduce il lettore sul fondo della storia, superando di slancio le forme assolute, l’ordine costituito della società, la totalità del dato, i caratteri canonici del genere favolistico e accompagnandolo, invece, con sconfinamenti, eventi effimeri e imprevedibili, accostamenti lessicali inediti e parole che scoppiano. Tale dimensione creativa reinventata, oltre che vaga e indeterminata, priva com’è di riferimenti fissi, pure è in grado di coprire, come un mantello, tutto ciò che non è a portata di mano, a grandezza d’uomo. (...)" [Dalla prefazione di Alessandro Gaudio]