Un film melenso, tratto
da una storia vera capitata a Solomon Northup, raccontata in un libro
romanzesco pubblicato nel 1853.
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Una sorta di La capanna dello zio Tom, privo di slanci, di segni di rivolta foss’anche fosse finita con l’impiccagione piuttosto che subire umiliazioni laceranti di qualsiasi psiche. Laddove manca qualsiasi sostegno da parte dei bianchi del nord America, silenti fin quando il grande Lincoln (ben altro film, di tutt’altra fattura, recitazione, trascinazione verso il ripudio della vergogna per una sottomissione di un popolo al servizio dello sfruttamento intensivo dei campi di cotone in Georgia o Louisiana fa lo stesso) non ebbe a dire basta. Un violino responsabile del sequestro subìto dal protagonista che finisce per allietare le feste del padrone-schiavista, succube irrisolto – il Northup e lo strumento – delle prepotenze e diktat di chi lo ha comprato e perciò ne ha il diritto di vita e di morte al punto da soggiacere il protagonista alla sua volontà quando riceverà l’ordine di frustare a sangue un’altrettanto schiava invece che rivoltarsi e frustare lui.
Una specie, sia pure
larvata, della volontà di potenza ed espressione di odio praticati dal Ku Klux
Klan nell’indifferenza generale di tutti gli altri bianchi di qualsivoglia
continente. Nessun accenno alle – sia pur future – Pantere Nere e l’utopia del
ritorno in patria: l’Africa Nera da cui erano stati strappati con furia e con
forza. Una riedizione in chiave quasi nostalgica dei campi di concentramento e
di sterminio nazisti là dove si volle e si praticò che gli ebrei reclusi e
privati di ogni diritto allietassero col violino le serate dei Kapò.
Tutt’altra cosa, ma poi
non troppo dal Butler quanto alla
sottomissione; un film però di ben altra fattura, con un dispendio enorme di
mezzi; un protagonista la cui immagine non potrà facilmente dimenticarsi; un
attore pressoché professionale, tale diventato per effetto di una regia
superlativa; la cui fotografia, le riprese, la sceneggiatura, la scenografia;
il gioco di luci e di ombre; il sottofondo musicale sono tutti degni di un
Oscar.
E invece, a parte la
durata snervante di ben oltre due ore, i Dodici Anni, conoscono e praticano la
mediocrità, l’insipienza. Non c’è cosa che meriti un riconoscimento da potere
collocare la pellicola a uno qualsiasi dei primi posti elargiti dai vari centri
di potere del settore; per non dire del doppiaggio affidato a chi dovrebbe
cambiare mestiere; oppure del direttore della fotografia che tutto dovrebbe
fare meno che mettersi dietro la macchina fotografica e seguire semmai le
riprese affidate quantomeno a un sicuro apprendista.
Viene dunque voglia a chi
scrive di assegnare un bello e meritato Zero
in condotta, per citare un vero capolavoro ben meritato, di fu Jean Vigo,
il cui regista. Altri tempi quelli; squallore spesso oggi: com’è il caso
appunto del film del quale qui si tratta.
!Ignazio Apolloni