LA SCOMPARSA DI ETTORE E ANDROMACA
Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca (1968), Bronzo patinato, 48 x 19 x 27 cm. © Galleria d'Arte Maggiore, Bologna |
Lo
avevo conosciuto che era quasi un imberbe, uno di quei ragazzotti di buona
famiglia mandati a frequentare le nostre scuole a Ginevra. Nella più
prestigiosa, che non dico per modestia, io vi insegnavo metempsicosi e
metafisica dopo essermi guadagnato una tale reputazione internazionale da
essere richiesto – cito a caso – persino dall’Ecole des hautes etudes di Parigi. Si presentò con una sacca in
mano e uno zainetto, calzoni alla zuava, baffetti incipienti e qualche brufolo
in viso. Lo notai subito, gli posi la prima delle domande ma mi parve piuttosto
restio, a dire il vero. Spiaccicò alcune parole, per me incomprensibili in
quanto di una lingua (l’italiano) a me totalmente sconosciuta perché peraltro
mista a un greco sicuramente classico se non arcaico.
“Sono
Giorgio De Chirico. Un giorno sentirete parlare di me quale inventore di un
genere di pittura nient’affatto praticato. Son qui per frequentare i suoi corsi
di metafisica e non provi a inocularmi il germe della metempsicosi perché con
me non attacca”.
Rimasi
a dir poco sbigottito, se avevo ben capito. Gli feci ripetere ciò che aveva
detto in francese e il risultato non cambiò affatto, anzi fu arricchito di
elementi che lo facevano presuntuoso, e starei per dire sbruffone. Quasi per
punirlo lo collocai al primo banco, i miei occhi puntati sempre su di lui senza
che egli facesse nulla per sfuggire al mio controllo. Naturalmente i sospiri di
sollievo degli altri studenti si sprecavano, sapevano di non essere osservati,
potevano perciò darsi alle solite marachelle come scambiarsi pensieri
irriverenti verso il maestro – cioè io – oppure salaci, carichi di disprezzo
per chi vuole ad ogni costo eccellere. Ovviamente l’obiettivo di questi ultimi
era appunto il Giorgio, affettuosamente chiamato De Chirico da chi ne subiva
l’influenza – cioè pochi. Il corso durò nove mesi durante i quali ebbi modo di
apprezzare l’estro di colui che sarebbe diventato il pittore metafisico punto e
basta. Altrettanto ovviamente di metempsicosi non volle sentire nemmeno
pronunciare il nome, figurarsi i concetti. Era come se tutto ciò che riguardava
questa scienza gli puzzasse di aglio.
Passarono
anni, tanti. Ogni tanto mi giungeva notizia di colui il quale cominciava a
godere di significativi riconoscimenti nel mondo dell’arte. Alcuni servizi lo
qualificavano nientemeno che una speranza per la redenzione dei popoli (mica
solo di quello italiano) da una sciatteria chiamata sbrigativamente
neorealismo. Gli è che c’era bisogno di aria fresca, pluriossigenata e cosa di
meglio che darsi alla metafisica. Ecco dunque il genius loci, il già detto
Giorgio De Chirico scalare le graduatorie, divenire pluripremiato. A tal punto
che mosso da curiosità volli andare a trovarlo.
Mi
diede appuntamento al Caffè Greco (manco a dirlo). Dopo il classico caffè di
una miscela che compravano essenzialmente per lui andammo a sederci sulla
scalinata di Trinità dei Monti, tra azalee di tutti i colori e proprio di
fronte alla Fontana del Bernini. Non ci si crederà ma proprio quel suo buffo
cappellino di lì a poco fece il giro del mondo. Era già l’epoca della
comunicazione digitale a mezzo di foto scattate dai telefoni cellulari. Senza
alcun dubbio i più colti dei turisti lo avevano riconosciuto e perciò non smettono
di ritrarlo malgrado egli non se la dia per inteso. A me invece la cosa non
dispiaceva e sempre più spesso mi accostavo a lui se vedevo qualcuno pronto a
scattare.
Insomma,
finii con l’innamorarmi definitivamente della metafisica ed altrettanto definitivamente
abbandonai la metempsicosi. Da quel giorno cominciai a diventare il
collezionista più collezionista di altri di opere di De Chirico. Ma quale non
fu la mia sorpresa allorché scopersi che non ero né il solo né il più grande.
Testa a testa infatti stemmo io e un certo Bilotti finché egli non ebbe ad
aggiudicarsi una particolare scultura del maestro, fin qui conosciuto
fondamentalmente per le piazze: l’ormai arcinota Ettore e Andromaca, però semplicemente perché io non fui invitato
all’asta pur sapendo il buon Sotheby (con la complicità sicuramente del
Bilotti) come io non mi sarei lasciato sfuggire la ghiotta occasione.
Ma
dove la teneva quell’opera costui? A chi la mostrava, con l’orgoglio di chi può
far valere una sorta di primogenitura, nel senso di uno dai titoli sufficienti
per aspirare alla successione alla carica di monarca?
Ne
feci di indagini. Ne assoldai di detective. Ne tentai di blitz con l’ausilio di
artificieri assoldati sul posto: tutti venduti a chi offriva di più per far
fallire il progetto. Alla fine dovetti arrendermi, l’opera sembrava essersi
volatilizzata così come il suo proprietario. Girai ancora per qualche tempo a
Miami alla ricerca di una sia pur labile traccia. Tutto inutile. Ne approfittai
per fare dei bagni nel Pacifico e per ritornare quindi abbronzato. Ebbi pure un
flirt ma evito di entrare nei particolari anche perché ebbi la sensazione che
la ragazza creola fosse stata messa alle mie calcagna proprio dal Bilotti: ciò
deduco dal suo comportamento evasivo quando cercavo di avere da lei o da altri
utili elementi per la mia ricerca. Ormai stanco e deluso diedi forfait ed ero
rassegnato a risultare soccombente allorché vengo invitato a Cosenza da un
certo Gianfranco Labrosciano.
Terrà
una lezione di storia dell’arte sotto forma di spettacolo al Teatro Rendano con
oggetto il barocco nell’interpretazione che ha avuto in Velasquez.
La
cosa mi intriga. Vesto dunque i panni più umili per apparire un qualsiasi
viandante; un curioso; uno che cerca forti sensazioni. Per l’occasione avrò un
mantello con cappuccio (e finisce che gli altri spettatori mi prendono per un
frate cappuccino). Lui però, il Labrosciano, non si inganna. Mi riconosce, mi
viene incontro, mi abbraccia in modo plateale tra il divertimento del pubblico
che magari si aspetta il baciamani come si è soliti fare a un frate. Una volta
però scoperto l’equivoco ecco la risata, tanto fragorosa da fare tintinnare i
lampadari. E finalmente si può passare allo spettacolo.
Fu
un trionfo. I battimani, ad ogni esecuzione di ballerine, chitarriste, vocalist,
accompagnate al pianoforte si sprecano. C’è chi tifa come si fosse allo stadio.
Chi tace e annuisce. Io che di Velasquez so quanto basta resto incantato vuoi
dall’eloquio e vuoi dalla mole di notizie sul pittore spagnolo (qualcosa che
poco ci manca e raggiunge l’altezza della Mole Antonelliana). Lo aspetto
comunque al varco perché ho sentito parlare di un certo MAB, senz’altra
specificazione, ma che a detta di alcuni dovrebbe avere una qualche relazione
col Bilotti.
“Sacripante”!
ebbi a gridare appena saputa la cosa. “Non sarà che questa volta la scultura di
De Chirico non mi scappa: nel senso che almeno la voglio vedere dal vivo se
proprio si trova a Cosenza”?
Fu
esattamente così. A fine spettacolo il Gianfranco, sebbene stanco come se
avesse montato da solo la piramide di Cheope, mi portò in giro per la città di
Cosenza lasciandomi però a lungo in attesa del fausto evento. Giunti in una
strada dal pavimento a volute e losanghe di marmo e scoprendomi gli occhi che
aveva preteso fossero tenuti chiusi mi pose davanti alla scultura da me
agognata: quella per la quale avevo perso la testa più di quanto non mi fosse
mai accaduto per una donna.
“Sacripante,
ancora Sacripante” gridai questa volta ad alta voce, svegliando di conseguenza
il vicinato, nel momento in cui le fui di fronte. Era proprio lei, il colpaccio
del mio antagonista che tanta amarezza mi aveva procurato. Nel Museo all’aperto
c’erano altre sculture anch’esse regalate alla sua città natale dal grande
collezionista. Non me ne curai però perché ben altro era tuttora il mio
interesse.
La
mia attesa era stata dunque soddisfatta. Me ne potevo ritornare a Ginevra con
finalmente la piva nel sacco. Piva in quanto a regalare la scultura alla città
di Cosenza avrei voluto essere io al posto suo.
da èRacconti Surreali
Ignazio Apolloni