La metaliturgia del Sagittario│ Massimo Sannelli

 

A casa di Godard ci stai bene? Sì, molto. E a casa di Emily Dickinson? Oh è così adorabile, abbiamo mangiato la torta di mele, per dodici minuti ha letto poesie, ma poi è passata una rondine, e poi mi ha mandato via: non mi ha chiesto il telefono, penso che non ci vedremo – ritualmente, oh così, ritualmente – per otto mesi e quattro ore. E a casa di Marina Abramović? Io adoro Marina Abramović. Ora vado da lei, ma prima bevo cinque caffè ossessivo-compulsivi, ascolto la sonata D. 960 di Schubert, poi sto venti minuti e trenta secondi in silenzio e poi vedo Marina Abramović. Cioè: la vedo in foto e in video, comunque la vedo. E la sento. E la adoro, e perché? Perché le sue azioni non sono acquose e polisemiche: hanno sempre un livello facile di senso, e non sono del tutto inspiegabili. Si possono spiegare e non sono azioni ambigue. Marina può essere dolorosa e orecchiabile, come i temi di Beethoven e come le inquadrature di Godard.
Nelle opere di un Sagittario c'è sempre l'ironia sul mezzo. Le nostre opere sembrano sempre citazioni, in nome della perfezione e in nome nostro. E poi Abramović e Godard non costringono nessuno ad un rito inspiegabile; costringono all'osservazione religiosa – e quindi all'osservanza, e al rispetto – ma non impongono sfumature troppo sottili: non c'è niente di impalpabile, e lo spirito passa attraverso atti rigorosamente fisici. Di solito siamo disgustati dallo spiritualismo dello spirito: abbiamo bisogno di corpo, naturalmente per piegarlo e per provarlo, all'esterno. E tutto è autentico e nello stesso tempo è riferito su uno schermo, come nel cinema: tutto è in posa e tutto è cerimoniale, ma quando la posa si scopre c'è l'ironia, e c'è da sempre. In generale, le nostre opere sono liturgie metaliturgiche (metateatrali, metacinematografiche, ecc.) e dolcemente autoritarie; sono cose complesse, ma spiegabili, e con almeno un livello popolare. Quindi è difficilissimo fare la critica delle opere sagittariane, perché non si tratta di arte. È un bel casino, in realtà. Le opere sagittariane non sono arte al cento per cento, ma sono l'apparizione – contemporaneamente papale, prometeica e clownesca – di un Artista. L'opera sagittariana è l'esperienza –papale, prometeica e clownesca – di quell'Artista, ecco.


© marina abramovich
Per essere rituali e liberi, e leggeri, dobbiamo evitare ogni retorica: tranne la nostra, che muore e risorge in ogni istante. Di qui la volubilità. In ogni caso è un corpo che non accetta limiti, quindi è utilizzabile fino allo spasimo.
La liturgia è una professione, ma si brucia nell'atto e non si conserva. Quindi deve essere ripetuta (forse), ma se si ripete non sarà mai uguale: l'identità di due cose non è più gerarchica, e noi siamo ferocemente gerarchici (non in senso politico); ma nessuno lo vede. In realtà noi siamo insegnanti e preti, anche quando corriamo. E chi non capisce che l'insegnante e il prete non amano stabilmente nessuno – se non finché dura la performance – non ha capito niente.
Centauri, esecutori, maestri, preti, performers, musicisti ricordate due cose: quando siete in pubblico, sembrate un re che visita un asilo, ma nessuno lo capisce (e la funzione è sempre reale, mentre la finzione non ci appartiene). E poi: la nostra normalità è solo un'invenzione d'autore, che passa su uno schermo, davanti al pubblico.

 Estetica del Sagittario – di Massimo Sannelli