Alessandro Gaudio ▌Forma e suono dell'inferno nella poesia di Landolfi


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3. Forma e suono dell'inferno

  è, dunque, densa la realtà di cui parla Landolfi e ha una forma e un suono che la pervadono tutta, facendone un complesso firmamento:
          L'intera terra par fatta un immane
          Clavicembalo e vibra in una nota.
          [...]

(Viola di morte , Adelphi 2011, p. 84)

 

Che il poeta ritrovi tale nota nel canto delle cicale, nell'ululo del lupo, nella sinfonia del tempo scialacquato o altrove, dove si piange e si deplora la stirpe umana e peritura, è proprio in quell'unica nota che egli riconosce la struttura del quotidiano, tanto il suo senso quanto la sua ultimità: è in quella nota che vibra il suono, ripetuto sino alla morte, della mia esistenza. Quel suono sempre uguale è il limite di ciò che, giorno per giorno, posso scorgere. Nel rintocco delle campane risuona il mio nome e il mio tormento, così come intravvedo il mio segno nella «pecorile litania» dei miei versi, nella loro «vaga agitazione» (p. 59). Su tale aspetto stilistico tornerò più avanti; per adesso basti osservare che la mia voce è la forma immutabile della mia invincibile sofferenza:

           Dovunque ci meni la vita
           O la morte, qualunque sentiero
           Corra il nostro pensiero,
           In qualunque reame la più ardita
           Fantasia ci introduca, in qual sia mare
           Gettiamo lo scandaglio, in qual sia cielo
           Profondiamo lo sguardo, in qual sia terra
           Cerchiamo l'ardua pace, qual sia nube
           Poniamo a specchio delle nostre pene −
           Noi non scorgiamo altro che questo.
            [...]
            (p. 113)

 

La figura delle mie passioni è, dunque, in questa nota che corre anche il rischio di non poter essere decifrata, né da me, né dagli altri: quanto è strappato, divelto e difficile da comunicare persino il più semplice dei pensieri! Come si è già accertato, sembrerebbe in fondo vana la mia «diuturna fatica» (p. 152) di ricondurre il disperso e il discorde all'uno, alla norma che tutta la mia vita informa; proprio perché questa tende inesorabilmente a un limite, alla morte o, che è poi la medesima cosa, all'inconcluso, al nulla che, pur essendo ovunque, mi resta precluso. Perché, giorno per giorno, io sperimento quell'inferno e finisco per accorgermi che esso non ha suono: può forse definirsi suono l'emissione costante della stessa nota?

«Il vero inferno − dice così Landolfi nella biere du pecheur − è una cosa senza rumore. Esso non delira o infuria, non è una bestia feroce, ma un che, un qualcuno di sordido e molle che s'insinua in noi, quando con noi non nasca, e a poco a poco riempie tutte le nostre cavità, fino a soffocarci. Esso è fatto di giorni inerti (chimicamente parlando), d'infedeltà a noi stessi, di continui cedimenti».[1] Ben si evince quanto quell'unica nota sia subdola e, al contempo, pervasiva e compatta. Si capisce il modo in cui quel ghigno senza forma mi riempia la bocca, «Come la terra al morto» (p. 186).

Eccola qui l'irriducibile forma del suono. è così che il mio niente si fa tutto («infinite cose è la stessa che una cosa sola», assicura Landolfi negli anni Sessanta, in uno dei suoi racconti impossibili) e mantenendosi ostinatamente cosa priva di forma e di suono non mi consente di possedere davvero neanche ciò che ritengo possa appartenermi. Sul piano testuale − e nelle poesie di Viola di morte ciò si vede perfettamente − posso ritrovare un equivalente retorico di questo inferno: come Landolfi riesca a riprodurre nei suoi versi la forma e il peso di quella nota. Si è già accennato al fatto che l'allestimento ostinato, ripetitivo e ipertrofico della scrittura landolfiana possa essere considerato criterio e, allo stesso tempo, sintomo del mondo tetro, gelido e luttuoso attraversato dal poeta: non è forse egli stesso a rivelarmi che è la rima che ci mena a morte? Per quanto una poesia vera sia per Landolfi una contraddizione in termini, egli ritiene che il mondo sia da affrontare senza ambiguità, servendosi di un linguaggio che, pur non essendo di alcun conforto, mi consenta un'espressione sincera (precisa, pertinente e mai affettatamente retorica o magniloquente) anche degli aspetti più complessi e ambigui della realtà che, in questo modo, non restino privi sulla pagina del loro mistero.

 

da èAlessandro Gaudio ▌Peso e patologia della realtà nella poesia di Tommaso Landolfi, in E. Di Iorio e F. Zangrilli (a cura di), Tre corone postmoderne. Landolfi, Manganelli, Tabucchi, Atti del Convegno Internazionale patrocinato dall’Istituto Lorenzo de’ Medici di Firenze, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 2015, pp. 85-108.

 


[1] T. Landolfi, la biere du pecheur [1953], in Id., Opere, vol. I , Rizzoli 1991, p. 636.