La stazione del poeta ⁞

(...) la moglie che, per l’occasione, indossa una sorta di poncho celeste e blu, con un cappuccio
La stazione in cui non ferma nessun treno.
by Gaudio Malaguzzi
Generalmente  nessuno viene a questa fermata ad attendere il treno, perché qui non ferma alcun treno, e l’attesa sarebbe lunga e snervante, e tutte le coincidenze andrebbero perdute. Chi viene a prendere il treno, quando  c’è il libeccio che sembra scendere da una sorta di spaccatura nella roccia dal Santuario di S. Maria dell’Armi [ ed ha sempre quel gelo secco ed estraneo che pare che renda la stazione un luogo estremamente salubre e riposante, è il gelo della guerra subdola, fuori da ognuno dei 36 stratagemmi ma anche dentro di volta in volta in ognuno di essi e nel suo contrario, tutto condensato e divulgato di volta in volta dalla tomba di quel principe nero che con questa virtù si distinse nel golfo di Taranto durante la 2^ Guerra Mondiale ], è il poeta che deve andare dal torinese a Torino e qui, dal bosco del torinese, parte. La stazione non ha biglietteria, né capostazione, sul marciapiede della stazione non vi sono altri passeggeri che attendono uno dei ventitré treni che passano durante il giorno e la notte, né bambini, a volte perlustrano i binari alcuni cani e gatti randagi, e sui pini e gli eucalipti sostano sui rami degli alberi secchi o malati le cornacchie. Il treno, quando è il poeta che lo aspetta, ferma, dopo aver rallentato, e subito il capotreno scende e prende il bagaglio del poeta, dopo averlo riverito e salutato; a volte, se è inverno, prende anche il Montgomery del poeta e il cappello bianco, che il poeta ha comprato da Barbetti a Bologna; se la stagione è calda, il capotreno offre una bottiglietta d’acqua minerale al poeta e il poeta trae da una busta di plastica una delle mitiche arance del giardino di Mia Nonna dello Zen e la porge all’ammaliato funzionario delle Ferrovie dello Stato, che esclama: “Ah, ‘u purtuàllë ‘i zì Gurèlji!”

Gli skinny-jeans 701 della Levi's
Una volta chiuso lo sportello, il treno riparte e, se è una bella giornata, il poeta è subito al finestrino, cosicché, superato il casello 112 e percorsi altri trecento metri, potrà salutare con la mano la moglie che, per l’occasione, indossa una sorta di poncho celeste e blu, con un cappuccio, che rende ancora più patagonica la figura di quella donna dalla bellezza greca e sibarita, con la linea del podice saraceno così marcata dagli skinny-jeans 701 della Levi’s. A volte, anche il capotreno, e altri passeggeri, salutano con un gesto la donna, e, poi, cullati dal movimento del treno, lungo tutto il viaggio non saranno pochi i momenti in cui lei sarà rivista e omaggiata nei loro piaceri singolari, capita spesso che alcuni, per fissarne meglio la figura da fantasmare, vadano a chiedere al poeta stesso se è vero, come asserisce il capotreno, che la signora calzava stivali fin sotto il ginocchio, che esaltavano il cavo popliteo di quello straordinario esemplare greco-saraceno.
Talora, nella stagione più calda o durante il mese di maggio, alla stazione, in cui non ferma nessun treno, fa la sua apparizione, come se fosse un demone meridiano, la giovane bellezza , con quel qualcosa che ferma lo sguardo basso del visionatore e che è quel suo punctum che combina e condensa le due bellezze descritte da Anton Čechov nel racconto “Le belle”, quella dall’aria severa e classica, la bellezza armena, e l’altra, nervoso-amorfa, della bellezza mercuriana da farfalla(1), solo che lei somatizza più che la tipica bellezza armena la patafisica dell’archetipo greco-saraceno combinandolo con il bagliore ainico dello schema verbale sibarita, tanto che, all’ora del passaggio del treno a mezz’ora dal meridiano, l’apparizione di questa donna fa rallentare il treno fino a che, una volta che si è fermato, il poeta possa essere destinato, salendovi e dotato regolarmente di biglietto, alla città della ruota, e, sarà per la stagione, sarà per l’aria rarefatta meridiana, sarà per il leggero vestito che la giovane bellezza sibarita indossa, tutti i viaggiatori, come per incanto, vengono ai finestrini a mirarla con ardito pudore, e la fermata si prolunga per qualsiasi convenevole, o perché sono stati aperti più sportelli e, ordinata lievemente la chiusura dal capotreno, ne rimane sempre più di uno aperto, tanto che accadde una volta che quel treno avesse già un ritardo di 40 minuti sulla tabella di marcia, che, da allora, si fece numero dell’ainos, del bagliore ainico, della patafisica di quel tergo ainico, numero impudico per il gaudio dell’oggetto “a” di quei viaggiatori così pervasi e invasi dall’archetipo somatico greco-sibarita, rallentata cura e delizia per il proprio (-φ), posto e rigoduto per tutto il viaggio di 17 ore, nel piacere singolare, di ogni visionatore-viaggiatore,  in una combinazione tra le posizioni, della figura ainica, numero 40, ridenominata l’ Attrazione della Stazione del Poeta (che è destinato a Torino) , e la numero 17, ridenominata come ognuno dei fantasmatori usa nel proprio linguaggio libidico sul tema del sostantivo-archetipo greco Προβατο ( sublegato allo schema verbale Προβαίνω, vado avanti, procedo, avanzo, passo). Che fa percepir la bellezza in modo strano, come nel racconto Le belle di Čechov(2), al giovane ginnasiale,  Màša(3) destava non desiderio, non estasi e non piacere, ma una tristezza greve, benché dilettevole, una tristezza indefinita, confusa come un sonno, lungo tutto il viaggio anche nella notte: un sentimento tale come se ogni visionatore-viaggiatore avesse perso qualcosa di importante e necessario per la vita, che ormai non avrebbe mai più ritrovato.
(1)  Cfr. V.S. Gaudio, Bellezze di Čechov.Somatologia della bellezza armena e della bellezza da farfalla.
(2)  Anton Čechov, Le belle, in: Racconti, trad.it. Oscar Mondadori 2001.
(3) E’ veramente sorprendente, tra l’Heimlich e l’ainos, come il nome della giovane armena, che il padre chiama addirittura Màšja, allitteri in modo stretto, così stretto, quasi rinserrandolo, il nome stesso della giovane moglie del poeta!