Milla Jovovich by Ellen von Unwerth, 1999|
Adesso che l’aspetto del poeta è quello
di un uomo tranquillo e per nulla fantastico, saltano fuori calcoli, anche
astrologici, e li sta ancora esaminando un astrologo con una punta di acre
divertimento, da cui risulta che egli dovrà amare questa Milla Jovovich, così come la rende patafisica
e diabolica Ellen von Unwerth alla fine del ventesimo secolo, per un anno e sei
mesi, come se fosse l’oggetto “a” assoluto dei suoi piaceri singolari; per
molti versi, pare che sia la donna predestinata a questa cura ossessiva, anche
per via della pulsione del poeta, che è quella uretrale, dentro una sorta di
barriera etica, per quanto sia elaborata, e fin tanto che non ci sia dalla sua
libido la fuoruscita degli affetti brutali accumulati, odio, invidia, furore,
gelosia, collera, vendetta: un poeta così preso dentro questa sindrome di Caino annega tutta la sua bontà,
la dolcezza, l’ingenua tolleranza, piscia sugli scrupoli, esplode e si diletta
delle disgrazie altrui. Qua dentro, anche un poeta che è ossessionato dalla
bellezza callipigia delle senesi, così come ce la rende patafisica Ezra Pound
nel Canto XLIII, per via del fatto che in sintomatologia si barcamena tra
manifestazioni allergiche, enuresi , epilessia essenziale, e, se chiamato a
farsi Lafcadio per l’assassinio dei poeti lirici e postmoderni, e dei cantanti
in odor di Nobel e Grinzane Cavour, sarà sorprendente come un piromane, cattivo
come un omicida passionale, rabbioso,sulla superficie di fuori mentre spalanca
l’occhio, scintillante scissura, nel suo fremito di tremore fino a quando
irrompa a lungo sigillato quel quarto grado di Eric Berne, l’orgoglio
peyronico, che finora tra buio e quiete, una scissura dunque, frema così,
fremito tremi, con quella bocca, Milla, e così diabolica l’occhio e quella
bocca non essendoci più nulla, così qualche volta, come un qualcosa, dentro
solo questo analemmma esponenziale del suo oggetto “a”, dove mai potrà amarla, in un bosco, sotto
questo pino che si erige contro il fondo del cielo, colà, allora là, then there,
o via di là, a marzo allora di nuovo la prenderà per così tanto poco, lungo tutta la spiaggia,
alla fine del giorno, che shummulo uretrale potrà mai essere, un unico lungo
suono, uno shumullar lungo tutta Milla lungo tutta la spiaggia, allora nessun
suono, laggiù, la quiete e la tolleranza del mare, avanti, quell’albero ritto,
l’albero per Milla, che si fa demone meridiano, perché sta passando al
meridiano del poeta, chiedi al pensiero di ficcarla in un piacere singolare di
Harry Mathews, di metterla in questo film del poeta, per un quarto d’ora senza
contare i silenzi e le attese del (-phi), o quando nella sua testa lei chiude
la bocca e in silenzio, non può fargli il diavolo, il poetino s’ammoscia e
dorme; silenzio così che ciò che fu prima e giù di lì, guardandola ancora
dentro questa luce che potrebbe essere quella di un crepuscolo diabolico, senza
una parola, l’astrologo dice che si tratta di un fantasma e anche se assomiglia
all’oggetto “a” del poeta, attento, gli dice, quella ha sì lo stesso Giove, come
ce l’hai tu, ma lei ha la Luna Nera al
medio cielo, a sud, e dapprima di piatto sul duro, la destra, poi di piatto
sulla sinistra, del tutto, quella là hai visto che bocca che ha? Milla sabato
riposa, basta star qui con questa bocca che ami per via della tua pulsione “e”,
così come la chiama Leopold Szondi, e+, se è giorno, e, quando viene la sera, già al crepuscolo,
l’abbiamo visto, con questa luce che si fa, che figa diabolica, allora ci vuole
da che mondo è mondo e l’universo è infelice, un bel colpo di crudeltà, ma se
dormi così come fai a farti dentro la pulsione e-, che è tra
l’invidia e la rabbia, e il peggio che
va in peggio, senza requie, né tregue a niente, shumullarla sott’al pino, donde
la voce che dice Milla o Shumìlla, adesso sì che si va su e giù, per via del
treno, che passa di lato e per via della tua luna nera, sfrontata come sei
dentro la pulsione hy+ sei questo fenomeno di conversione che solo in treno, con
quella bocca che hai, le paure notturne, i lamenti, l’ansietà e l’arte drammatica
in generale, e l’emicrania del poeta, in alto e in basso, vanno su e giù, o
tutt’intorno, a capo d’una lunga notte, con quella luce dentro il vagone, sarà
questa la scena per il piacere singolare finche il tempo la finisca, arresto
del dondolio, e la luna nera se ne va.
Pare che l’astrologo, non certo per via
di šúma [che va letto: “sciúma” in
correlazione fonetica dello “shummulo”( leggi,
appunto: sciúmmulo) e dello “shumullar”( leggi: sciumúllár)], che nella lingua
di Milla potrebbe essere il bosco, la foresta, e per via di quel pino-meridiano
dunque, o del vento, del fischiare del vento, lo stridere dello schema verbale šúmiti, anche in treno si sente, e pure šum è mormorio e sussurro, l’ascendente di Milla, disse l’astrologo,
che sussurra, o fruscia, per via dell’albero, del bosco, in mezzo al quale
passa il treno, šum è l’interferenza,
questa interferenza somatica, forse la sua bocca, in questa foto, o i vestiboli
tutti, occhi, naso, bocca, che fa rumore, o stride, può essere che fischi, sul
mezzopunto del poeta della Luna Nera con Marte e Urano; la luce che c’è, questo bagliore del demone meridiano
che passa al crepuscolo, dov’è il Sole della patagonica, che è il punto arabo
dell’Anima e forse del dispositivo
sessuale del poeta-visionatore. Il demone, nella lingua di questo oggetto d’amore,
sta tra zloduh(con la zeta che va
pronunciata con la “s” sonora di “rosa”)
e vrag, e tutto bagnato fa zlo, che scivola, bagna, roscida come lo
shummulo, è il “male”, la parte
maledetta di Jean Baudrillard, aggiunse l’astrologo colto, e zlóba è la malizia e la malignità,
guardalo il tuo demone meridiano, sussurrò al poeta, quanta zlóća vedi in lei? E invece di pronunciarlo,
il termine di “cattiveria” e “malvagità”, come andrebbe pronunciato: “slócia”, glielo mormora dicendo: “zlóca”, per allitterargli, per fargli
entrare nell’orecchio, qualcosa che, nella lingua del poeta-visionatore, è inequivocabilmente
connessa alla pulsione hy più
esplicita e più istintivamente incontrollabile. Tu dici, disse il poeta, che è per
il suo Ascendente, la Luna Nera e il Sole, che è nel crepuscolo e quindi fa
quella luce sulla sua faccia, che Milla shummula la mia anima, non abbiamo
nella sua lingua, per faccia, il neutro “lice”?
Che, scritto, interferisce con “luce”, ma letto come me lo sussurrerebbe Milla,
farebbe “lize”, e in un libro, in un
film, è il personaggio, la protagonista, lice
è anche la persona e il dritto di una stoffa, per questo quella faccia ha
quella bocca e quegli occhi; perciò potrebbe essere nel piacere singolare del
vagone letto, o quantomeno su un treno, non si dice léžaj [légiaj] per “posto letto” e non è léžati lo schema verbale dello “stare sdraiato”?
La bocca, disse il poeta all’astrologo, cos’è che fa una bocca così, è come la
bocca di Rita, un vaso trionfale a cui assimilare il Mandala nelle cerimonie
tantriche, in cui inesauribili sono i nutrimenti per i guerrieri(e i poeti)
beati, o è il vaso dentro il Regime Notturno dell’immaginario, si situa a metà
strada tra le immagini del ventre digestivo o sessuale e quelle del liquido
nutritivo dell’elisir di vita e di giovinezza[i]? La bocca, nella lingua della patagonica, è “usta”, che, come radice, sta in ústanak, che fa sommossa, rivolta,
sollevazione, insurrezione; ústanik è
il ribelle, l’insorto, ma sta anche in ústanova,
che è l’istituzione, ma più che altro, ed essenzialmente, è la radice di ústav, che sta per “costituzione”, maschile
il primo, femminile la seconda, come per la bocca, che è un sostantivo neutro
plurale nella lingua di chi ha quella faccia per il poeta: dandosi come parte
maledetta “usta”, che come vestibolo
riassume la costituzione del nostro oggetto d’amore, quel vaso trionfale del demone
meridiano è davvero il Mandala delle cerimonie tantriche che sono i piaceri
singolari del poeta visionatore: anche nella storia di Rita, l’ospite atteso, o
chiamato alla tavola, il palo o la pietra meteorica e la sorgente o il lago
sacro, bevendo dalla coppa addentava la carne della Dea Sidhuri, donna del
vino, che è Calipso e Ulisse che è sempre e comunque, come il poeta-visionatore
di Shumilla, l’archetipo del fallo errante e irrumante, l’ospite da armare. Giove,
aggiunse l’astrologo, che costituisce una bocca così patafisica, trionfale e
nutritiva, è quello che nella giovinezza, essendo Mladost, ha in sé Mlad,
che si usa per il vino novello, non dimenticare che la patagonica che affascina
il poeta in questa fotografia di Ellen von Unwerh sta per fare 24 anni, è
ancora sui 23 e ¾, la stessa età dell’oggetto d’amore assoluto
del poeta quando gli si fece “sposa”,
che, nella lingua di Milla, sarebbe “mláda”
e che è il vaso trionfale da cui hanno avuto origine lo “shummulo” e lo “shumullar”.
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