Se dobbiamo credere che letteratura e vita si compensino
vicendevolmente, traendo dal medesimo fuoco gli spunti per disseminarsi nel
mondo, allora dovremmo studiare l’opera e la condotta di Gauthier Lecrercq,
fratello maggiore di Bernard e suo esatto contrario: tanto il primo aveva
impresso nel sangue la severità nei costumi del giansenismo paterno, quanto il
secondo correva fuori dal solco, in una deriva spiantata e godereccia. Un
particolare avevano in comune (anzi due, ma di questo dirò più avanti):
entrambi si fecero ritrarre dal pittore Louis-Léopold Boilly, in principio
dell’Ottocento. Sono due piccoli oli: le teste sparruccate, il mezzobusto di
tre quarti con redingote e camicia senza fronzoli. Bernard indossa vanitosamente
un gilet a righe orizzontali, sottili strisce nere su sfondo oro, e ha labbra
carnose, in apparenza innocue. L’irrequietezza selvatica si legge dal taglio
linciato delle palpebre e dalle orecchie puntute. Gauthier, il buono, ha i
tratti regolari e l’incarnato pallido di chi passa il tempo all’ombra del
calamaio o tra le polveri domestiche. Gli occhi sembrano ancora stropicciati
dal sonno e invece raccontano, appunto, le notti contese fra la scrittura e le
cure amorevoli verso la madre moribonda: rassegnato alle stravaganze di
Bernard, Gauthier accettava quest’incombenza con onestà e senso del dovere,
accudendo la casa in cui tutti e tre vivevano. Il padre era infatti morto
cadendo da cavallo, quando una ragazzina di umili origini gli intralciò casualmente
il passo in una stradina di Bois de Boulogne. Nessuno seppe mai di preciso cosa
provocò il disarcionamento, forse
nemmeno il cavaliere. Violetta, la piccola fuggita come una lepre dopo
l’incidente, era poi cresciuta nella libertà più sorprendente, succosa come una
pesca d’agosto.
Destino volle che i due fratelli, molti anni dopo,
cominciassero a frequentarla all’ insaputa l’uno dell’altro: Gauthier di giorno,
scampando ai doveri; Bernard dopo il tramonto, sino a notte inoltrata. Il primo
le scriveva parole romantiche, il secondo faceva l’amore con lei.
Un mattino di sole, Gauthier accompagnò Violetta dal
pittore: ne voleva immortalare la mestizia. Louis-Léopold Boilly ne ricavò una
fisionomia eccellente, mesta nello sguardo e angelica nell’aspetto, malgrado i
neri boccoli sciolti sulle gote aprissero ad altre vertigini, assai meno caste.
Lo sfondo neutro amplificava il rossore diffuso, come di ragazza che si
esponesse per la prima volta allo studio minuzioso di un uomo. Poche settimane
dopo, per ringraziarla dei grandi servigi amatori che gli aveva fornito senza
chiedere in cambio alcunché, Bernard Lecrercq la portò dal medesimo pittore,
che impresse sulla canapa lo stesso viso, ma dando agli occhi la fiamma della
femmina in amore e caricando i boccoli delle sinuosità proprie alle serpi. Era
uomo di mondo, Louis-Léopold Boilly: poteva fingere di non avere mai incontrata
quella donna e dipingerle il volto come se appartenesse a due dame differenti.
Impossibile dire, guardandola, se fosse della specie serafica o infernale; lui
semplicemente restituiva la forma richiesta dall’amante. Entrambe vere,
entrambe parziali. La verità era assai semplice: a lei il sesso piaceva, ecco
tutto. Così come adorava passare dei periodi in assoluta castità, nel bianco della
virtù più stretta. Amare Gauthier Lecrercq e suo fratello le consentiva di
vivere entrambi i paradisi, non curandosi troppo dei dolori che
l’avvicendamento comportava: mancando lei, a causa di una indisposizione o di
un occasionale servizio domestico presso una comunità beghina, Gauthier si
sentiva un inetto, pieno di lacrime e cuore in burrasca; Bernard invece
s’infuriava, ma non la cercava per non darle soddisfazione. Quest’altalena
permise alla ragazza di trarre il massimo godimento, almeno fino a quando i due
rimasero nel chiuso delle loro abitudini, parlando poco e vivendo l’uno col
sole l’altro con la notte. Quando tuttavia Bernard Lecrercq s’impoverì fino al
midollo giocando a carte e ai dadi, tanto da chiedere la restituzione del
dipinto a Violetta per ipotecarlo assieme al proprio, successe qualcosa
d’imprevisto ma decisivo per tutti.
Prima di darlo al Monte dei Pegni, l’infelice lo aveva
portato a casa involto nel giornale, per nasconderlo nell’armadio. Gauthier
ebbe la sfortuna d’incappare nel prezioso ingombro mentre cercava un cappello;
ingombro che divenne fonte di estrema gelosia appena fu liberato dalla carta e
si rivelò, con tutta evidenza, la prova che la sua fanciulla celeste era invece
la più ripugnante puttana dell’Impero. Il pittore, pensò Gauthier guardando il
ritratto, l’aveva svelata nel profondo: gli occhi lussuriosi e i riccioli
infernali raccontavano la melma in cui la sua anima prosperava, lo sporco in
cui languiva inferma. La credeva immacolata, ne aveva scritto come si addice a
una madonna, con le belle parole di un Werther, di un Ossian e invece…
Non disse nulla né all’uno né all’altra. Aspettò che suo
fratello, nel disonore più profondo, gonfio di debiti e senza più amici,
decidesse di farla finita. Evento non privo di fascino in quell’epoca, gonfia
di narrazioni in cui il sublime e l’orrendo si toccavano i fianchi. Ma quella
morte per arma da fuoco, morte vera, con sangue dappertutto e debiti da
risanare, non ebbe nulla di letterario, anzi inaugurò una slavina fatale che
travolse anche sua madre, che morì ben presto, e parte dell’eredità seguita a
quel doppio addio.
Rimasto solo, portato diligentemente il lutto lo stretto
necessario e riscosso il denaro rimanente, Gauthier sposò Violetta, non
dispiaciuta di quest’esito, per quanto repentino. All’ apparenza, restò il
solito buon uomo che tutti conoscevano e rispettavano: premuroso, paziente,
sicuro, quello che aveva scritto delle cose di poca importanza, il romanziere
dilettante tutto preso dall’ amore devoto prima per sua madre e ora per quella
fanciulla. Invece, nel profondo, qualcosa era cambiato nel suo animo. Dal
giorno in cui aveva scoperto il tradimento, scomparso il fratello e punita
Violetta, legandola a sé col vincolo sacramentale, Gauthier Lecrercq fu pervaso
da un’energia nuova, diabolica, che tradusse in racconti crudeli, di sevizie e
decapitazioni, ambientati nei botri nauseabondi delle fogne parigine o nei
lussuosi pied-à-terre dell’aristocrazia codina. Metteva insieme il sangue delle
signore dei boudoir con i denti transilvani di vampiri misogeni, e le grida
acute dei farinelli più vanesi con le secrete di abazie
popolate da spiriti malvagi.
Protagonisti di questa serie di storie gotiche, suo malgrado
attraversate da una verve d’umorismo involontario, erano Bernard e Violetta,
cui faceva compiere nefandezze sotto falso nome, regolarmente scoperte e
purgate con altrettanta crudeltà dal potere costituito. Soltanto lui sapeva chi
fossero i modelli originali, e godeva di quella ossessione consumata fredda, di
quella punizione inflitta per interposta persona. D’altro canto, a sua moglie
analfabeta interessava poco la letteratura; a lei piacevano l’alta marea del
capitale, piovuto con i primi successi editoriali di suo marito, e il fatto che
questi avesse un’onda ciclica di potentissima passione amatoria, seguita da
un’apatia lapidaria, che le permettevano di soddisfare ancora entrambi i
piaceri, con regolarità. Lussuria e purezza segnarono alternativamente le
rivoluzioni lunari per molti anni; nella fase casta, quando suo marito si
chiudeva nella torretta a scrivere, lei usciva per le strade come una gradiva
pompeiana in cerca del suo artista preferito. Un critico malizioso, all’epoca
della guerra franco-prussiana, ipotizzò che tutti i ritratti femminili di Louis-Léopold
Boilly, anche di donne anziane, derivassero dalla medesima modella, da lui
magistralmente ritoccati, adattandoli al committente. Di sicuro, c’è soltanto
che i due ritratti maschili e quello del viso d’angelo sono ora presso
un’antiquaria parigina, mentre la traviata fu prima riscossa dal Monte dei
Pegni e poi distrutta nel fuoco dallo stesso Gauthier dopo la morte della
moglie, per conservarne una memoria più dolce. Rogo amorevole, ma che segnò la
fine della sua vena creativa, come si può facilmente verificare leggendo i
racconti editi fra il 1834 e il 1856, anno della sua dipartita.
Stefano Guglielmin
! Il
racconto fa parte della raccolta inedita Nature
morte con gesuita.