La
Torino di Fruttero & Lucentini
Una doppia
immagine di ordinata noia, come se […] la dinastia dei Savoia, costruendo le
sue piazze geometriche e i suoi viali ripetitivi, avesse intuito la dinastia
degli Agnelli e presagito, con la tipica clairvoyance dei poveri di spirito, la
continuità delle catene di montaggio Fiat: la grande tradizione del
prevedibile.[3]
Non era mai
finita; non succedeva mai che, per almeno una settimana, un giorno, la città
fosse in ordine perfetto, senza una facciata da dipingere, senza un albero da
potare, senza una conduttura da coprire.[4]
Così Fruttero e Lucentini ci presentano la Torino dai
netti rettifili e dalle prospettive ordinate, con le facciate tutte uguali e i
quartieri tutti rassomiglianti. Una Torino che risulta, per questo, noiosa e
monotona. La tradizione del prevedibile è, però, spezzata dai continui lavori
in corso che invadono ogni angolo della città. Il caos degli itineranti lavori
pubblici, necessari per mantenere l’ordine delle geometrie torinesi, introduce
così un elemento di squilibrio e disordine nella città, che sarà origine di
turbamento non solo estetico, ma anche e soprattutto psicologico e materiale
per i cittadini.
Una sensazione di attrazione/repulsione nei confronti
del caos cittadino è quella ben esposta nei pensieri di Massimo Campi, il quale
passeggiando per le vie di Torino, sente “da una parte, il risentimento
‘civilizzato’ contro quel chiasso infernale e quel probabile spreco di denaro
pubblico; dall’altra, il fascino ‘primitivo’ della distruzione per la
distruzione, l’orripilata ma complice venerazione di fronte alla sacra
bestialità del mostro”[5], la ruspa gialla.
Questo contrasto tra “civilizzato” e “primitivo”
connota peraltro la stessa Torino. Una Torino grande, dilatata, convulsa e
ringhiosa ma ancora non abbastanza grande, abbastanza metropoli, secondo la
teoria dello stesso Campi. Territorio di contrasti, ancora per poco
percettibili, tra città e collina, tra spazio urbano tetro, sgradevole luogo di
lavoro, e la superstite natura del contado, sede della passione e dell’istinto.
Qui si trovano le residenze dei ceti altolocati: la villa dei signori Campi, la
Conca di Sogno dei Botta e la valle delle Buone Pere delle Tabusso. E qui hanno
luogo gli idilli sentimentali fra il commissario Santamaria e Anna Carla, e il
vagheggiare romantico di Lello. È cosi che la collina acquista una dimensione
idealizzata, in cui sembra garantito il ritorno a forme di vita genuine. Ma
anche a qualcosa di più, per così dire, primitivo, poiché la collina è anche il
ritrovo di “tutta la puttaniera di Torino Sud! Tutto il Rotary delle troie!”[6], come dirà Ines Tabusso
parlando del suo vallone. Quindi, il contrasto prima delineato sopravvive anche
all’interno dello stesso ambiente. La città è infatti, a sua volta, luogo
antropologico-culturale per eccellenza, sede di gallerie Vollero, di cinema Le
Arti, degli atelier alla moda, ma è pure la sede di due delitti selvaggi
persino nella scelta delle due armi falliche – l'itifallo e il pestello di
pietra.
Questa coesistenza forzata di civismo, spesso ipocrita
e snobistico, e di istinto primordiale, talvolta delittuoso ed osceno, produce
in tutti i torinesi “la schizofrenia del dottor Jekyll e del signor Hyde, di
Caino e Abele”[7],
come ci riferisce il Campi nella sua acuta e, direi, profetica visione della
città.
La Torino degli anni ’70 non ha ancora compiuto del
tutto il trapasso alla modernità socioeconomica: da una parte, troviamo la
grande simbolica azienda della Fiat che, con i suoi ritmi di lavoro e di
produzione, ha reso la città un colosso industriale, arricchendola e
deturpandola allo stesso tempo; dall’altra, resiste ancora la Torino sabauda
con il suo “ambiente” altolocato, i suoi perbenismi e snobismi, i suoi
rimpianti dei bei tempi andati. Ben lontana dalla Torino deamicisiana, la nuova
città contemporanea deve vedersela con gli immigrati, le prostitute, i
delinquenti, l’inquinamento, la mancanza di verde.
Suggestiva è l'immagine di Anna Carla che,
passeggiando in periferia lungo l’argine del fiume, pensa alla Boston che non
ha mai visto come ad una città con la nomea di essere abitata da gente snob e
puritana, ma che ora “doveva essere una città come tutte le altre, piena di
negri e di grattacieli e con la solita, sterminata periferia di villette,
complete di giardino e doppio garage”[8]. È come se stesse descrivendo
la sua stessa Torino.
Una spiccata coscienza ambientalista appare nelle
pagine del romanzo: sembra quasi che il
marciume lungo le strade e le rive del Po stia a simbolo (e causa?) del
marcio della società. “Un puzzo antologico di morte vegetale, animale e
industriale”[9]
stagna nell’aria ferma di Torino, “uno squallore […] calligrafico,
perfezionistico”[10]
caratterizza le sponde del Po, tra scatolette di sardine arrugginite, neri
tralicci e piante solitarie e morenti.
All’immagine del Po colmo di sassi e rifiuti, si
richiamano per contrasto le velleità di palingenesi fluviale[11] dell’americanista Bonetto
con il suo slogan “Tutto per il fiume, tutto dal fiume”[12]. Lo stesso Bonetto, però,
usa il vogatore nello spazio chiuso della sua cameretta, piuttosto che remare
davvero all’aria aperta.
Un ritorno al contatto con la natura è auspicato anche
dal ragioniere Regis, che nel suo discorso ambientalista con il commissario,
insinua (inconsciamente?) il suo vero ed unico desiderio: ci vorrebbe più verde
e meno cemento, per poter guardare giovani innamorati “appartarsi magari dietro
un cespuglio”[13]
e soddisfare così le sue voglie – e
quelle di Garrone – di lascivo voyeur. Ecco che ancora ritorna il tema
natura-istinto, già enunciato a proposito delle colline piemontesi.
Particolare attenzione è prestata agli interni delle
case torinesi, quasi tutti appartenenti a palazzi antichi e senescenti, e
spiccatamente claustrofobici. La cameretta di Bonetto e di Regis, lo studio di
Vollero, l’appartamento della famiglia Garrone, ma anche la villa delle
Tabusso, danno tutti un senso di oppressione e frustrazione, nelle atmosfere
cupe come nel mobilio o nei numerosi oggetti souvenir di una vita passata,
quasi ad indicare le vite anguste e deprimenti dei loro proprietari.
Si trovano poi gli ambienti labirintici, tortuosi
degli uffici cimiteriali e degli uffici tecnici, gestiti dai vari Triberti e
Pellegrini, i custodi delle misteriose complicazioni burocratiche che si
muovono con naturalezza e maestria – se non con ostentato orgoglio – tra
corridoi, porte, camere, anticamere e alti schedari.
Il tema del labirinto si ritrova anche nello spazio
esterno del Balùn, il vasto mercato delle pulci torinese, dove merci di ogni
tipo, vecchie e sfasciate, sono accatastate sino a formare le alte pareti tra
le quali avverrà il secondo omicidio. Se quindi i labirintici archivi degli
uffici comunali rappresentano non solo la pedante lentezza della burocrazia ma
anche lo stallo delle indagini, la complicazione topologica del Balùn è
l’essenza del disorientamento esistenziale di tutta una società. Al Balùn non
si reca solo chi come il gallerista Vollero, diviso tra l’animo artistico e il guadagno
senza scrupoli, compra di nascosto cornici di seconda qualità per le sue opere
da rivendere a prezzi più che maggiorati. Al mercato delle pulci si
recano i Lello che non si sentono mai all'altezza di niente e di nessuno, i
Bonetto pseudo-acculturati che sperano in un riconoscimento dai circoli
accademici, le signore Dosio che vagheggiano trasgressioni di ogni sorta pur di
dare una svolta alle loro vite piatte. Ed infine tutte le Ines Tabusso che si
fanno giustizia da sole, credendo di fare la cosa più utile e sbrigativa a
dispetto dell’inefficienza della polizia.
Questa città confusa e incasinata, in cui “niente è
quello che sembra, niente sembra quello che è”[14], ricorda la Milano di
Scerbanenco, a cui Fruttero e Lucentini devono molto, soprattutto per la
descrizione realistica della realtà urbana dell’Italia contemporanea. Non è
sicuramente una giungla inestricabile né il male è cosi dilagante come nella
Milano dello scrittore di Venere privata.
Nella Torino di Fruttero e Lucentini, l’odore non è di morte, al massimo è
odore di fritto[15]. Non si tratta di fango e poltiglia per
Torino, ma di una profonda sensualità da scoprire, di zone nascoste che gli
ignari, i nuovi arrivati, i turisti, non sanno cogliere. Il commissario
Santamaria, un siciliano “all’estero”, sarà incaricato di scoprire la
profondità di Torino, non solo l’identità del colpevole. Sarà lui a corteggiare
Torino, sentendosi a sua volta incoraggiato da questa città a fare le sue avances
ad Anna Carla. Perché “dopo tanti anni che ci abitava, lui sapeva ormai che la
leggendaria monotonia della città era un’invenzione di osservatori
superficiali, o piuttosto un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si
lasciavano ingannare come dal neutro pelame mimetico di un animale appiattato.
Sotto quell’apparenza così ovvia, di carta messa in tavola, Torino era una
città per intenditori”.[16]
Un atto d’amore dunque nei confronti di questa città
ambigua, tra contemporaneità dissacrante e memorie di un passato
nostalgico, dalle mani di due profondi
conoscitori di tutte le sue zone d’ombra e di luce, della sua periferia come di
quel vecchio centro “chiuso in un guscio forse sicuro, prezioso, inalterabile,
o forse invece di una fragilità senza avvenire”[17].
(da Daniela Saitta, Rosa e giallo a Torino. Il poliziesco di Fruttero & Lucentini,
Prova d’Autore, Catania 2010, pp. 29-35)
[1] G. Padovani, Delitti imperfetti: Fruttero & Lucentini fra thrilling e parodia, in
Id., L’officina del mistero. Nuove
frontiere della narrativa poliziesca italiana, Enna, Papiro Editrice, 1989,
p. 163.
[2] C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, Mondadori,
Milano 1972. Ediz. di riferimento: Mondadori, Milano 2001.
[3] Ivi,
p. 192.
[4] Ivi,
p. 57.
[5] Ivi,
p. 192.
[6] Ivi,
p. 121.
[7] Ivi,
p. 192.
[8] Ivi, p. 22.
[9]
Ivi, p. 164.
[10] Ivi, p.
22.
[11] Il termine è di Giuliano Cenati, Le prospettive di Fruttero, Lucentini e le
donne della domenica in “Problemi”, gennaio-agosto 2001, n° 119/120, p. 57.
[12] C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, cit., p. 260.
[13]
Ivi, p. 385.
[14] C. Fruttero, F. Lucentini, A che punto è la notte, Milano,
Mondadori, 1979, p. 599.
[15] B. Meazzi, Il ventre della città nel romanzo giallo contemporaneo: Torino, Bologna
e Napoli, in “Narrativa”, 2004, n° 26, p. 122.
[16] C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, cit., p. 108.
[17] Ivi, p.
422.
Daniela Saitta Rosa e Giallo a Torino Il poliziesco di Fruttero & Lucentini Prova d'Autore, 2010 |
Questo testo di D.S. è stato pubblicato la prima volta il 25 agosto 2013.