Daniela Saitta • La Torino di Fruttero e Lucentini



La Torino di Fruttero & Lucentini

Grande protagonista del romanzo, “straordinario oggetto narrativo”[1] nelle mani degli autori, la città di Torino acquista nella Donna della domenica[2] una fisionomia nuova ed estremamente moderna, geometricamente ordinata e funzionale, ma con un’anima profondamente ambigua, caotica, enigmatica.

Una doppia immagine di ordinata noia, come se […] la dinastia dei Savoia, costruendo le sue piazze geometriche e i suoi viali ripetitivi, avesse intuito la dinastia degli Agnelli e presagito, con la tipica clairvoyance dei poveri di spirito, la continuità delle catene di montaggio Fiat: la grande tradizione del prevedibile.[3]

Non era mai finita; non succedeva mai che, per almeno una settimana, un giorno, la città fosse in ordine perfetto, senza una facciata da dipingere, senza un albero da potare, senza una conduttura da coprire.[4]

Così Fruttero e Lucentini ci presentano la Torino dai netti rettifili e dalle prospettive ordinate, con le facciate tutte uguali e i quartieri tutti rassomiglianti. Una Torino che risulta, per questo, noiosa e monotona. La tradizione del prevedibile è, però, spezzata dai continui lavori in corso che invadono ogni angolo della città. Il caos degli itineranti lavori pubblici, necessari per mantenere l’ordine delle geometrie torinesi, introduce così un elemento di squilibrio e disordine nella città, che sarà origine di turbamento non solo estetico, ma anche e soprattutto psicologico e materiale per i cittadini.
Una sensazione di attrazione/repulsione nei confronti del caos cittadino è quella ben esposta nei pensieri di Massimo Campi, il quale passeggiando per le vie di Torino, sente “da una parte, il risentimento ‘civilizzato’ contro quel chiasso infernale e quel probabile spreco di denaro pubblico; dall’altra, il fascino ‘primitivo’ della distruzione per la distruzione, l’orripilata ma complice venerazione di fronte alla sacra bestialità del mostro”[5], la ruspa gialla.
Questo contrasto tra “civilizzato” e “primitivo” connota peraltro la stessa Torino. Una Torino grande, dilatata, convulsa e ringhiosa ma ancora non abbastanza grande, abbastanza metropoli, secondo la teoria dello stesso Campi. Territorio di contrasti, ancora per poco percettibili, tra città e collina, tra spazio urbano tetro, sgradevole luogo di lavoro, e la superstite natura del contado, sede della passione e dell’istinto. Qui si trovano le residenze dei ceti altolocati: la villa dei signori Campi, la Conca di Sogno dei Botta e la valle delle Buone Pere delle Tabusso. E qui hanno luogo gli idilli sentimentali fra il commissario Santamaria e Anna Carla, e il vagheggiare romantico di Lello. È cosi che la collina acquista una dimensione idealizzata, in cui sembra garantito il ritorno a forme di vita genuine. Ma anche a qualcosa di più, per così dire, primitivo, poiché la collina è anche il ritrovo di “tutta la puttaniera di Torino Sud! Tutto il Rotary delle troie!”[6], come dirà Ines Tabusso parlando del suo vallone. Quindi, il contrasto prima delineato sopravvive anche all’interno dello stesso ambiente. La città è infatti, a sua volta, luogo antropologico-culturale per eccellenza, sede di gallerie Vollero, di cinema Le Arti, degli atelier alla moda, ma è pure la sede di due delitti selvaggi persino nella scelta delle due armi falliche – l'itifallo e il pestello di pietra.
Questa coesistenza forzata di civismo, spesso ipocrita e snobistico, e di istinto primordiale, talvolta delittuoso ed osceno, produce in tutti i torinesi “la schizofrenia del dottor Jekyll e del signor Hyde, di Caino e Abele”[7], come ci riferisce il Campi nella sua acuta e, direi, profetica visione della città.
La Torino degli anni ’70 non ha ancora compiuto del tutto il trapasso alla modernità socioeconomica: da una parte, troviamo la grande simbolica azienda della Fiat che, con i suoi ritmi di lavoro e di produzione, ha reso la città un colosso industriale, arricchendola e deturpandola allo stesso tempo; dall’altra, resiste ancora la Torino sabauda con il suo “ambiente” altolocato, i suoi perbenismi e snobismi, i suoi rimpianti dei bei tempi andati. Ben lontana dalla Torino deamicisiana, la nuova città contemporanea deve vedersela con gli immigrati, le prostitute, i delinquenti, l’inquinamento, la mancanza di verde.
Suggestiva è l'immagine di Anna Carla che, passeggiando in periferia lungo l’argine del fiume, pensa alla Boston che non ha mai visto come ad una città con la nomea di essere abitata da gente snob e puritana, ma che ora “doveva essere una città come tutte le altre, piena di negri e di grattacieli e con la solita, sterminata periferia di villette, complete di giardino e doppio garage”[8]. È come se stesse descrivendo la sua stessa Torino.
Una spiccata coscienza ambientalista appare nelle pagine del romanzo: sembra quasi che il  marciume lungo le strade e le rive del Po stia a simbolo (e causa?) del marcio della società. “Un puzzo antologico di morte vegetale, animale e industriale”[9] stagna nell’aria ferma di Torino, “uno squallore […] calligrafico, perfezionistico”[10] caratterizza le sponde del Po, tra scatolette di sardine arrugginite, neri tralicci e piante solitarie e morenti.
All’immagine del Po colmo di sassi e rifiuti, si richiamano per contrasto le velleità di palingenesi fluviale[11] dell’americanista Bonetto con il suo slogan “Tutto per il fiume, tutto dal fiume”[12]. Lo stesso Bonetto, però, usa il vogatore nello spazio chiuso della sua cameretta, piuttosto che remare davvero all’aria aperta.
Un ritorno al contatto con la natura è auspicato anche dal ragioniere Regis, che nel suo discorso ambientalista con il commissario, insinua (inconsciamente?) il suo vero ed unico desiderio: ci vorrebbe più verde e meno cemento, per poter guardare giovani innamorati “appartarsi magari dietro un cespuglio”[13] e soddisfare così le sue  voglie – e quelle di Garrone – di lascivo voyeur. Ecco che ancora ritorna il tema natura-istinto, già enunciato a proposito delle colline piemontesi.
Particolare attenzione è prestata agli interni delle case torinesi, quasi tutti appartenenti a palazzi antichi e senescenti, e spiccatamente claustrofobici. La cameretta di Bonetto e di Regis, lo studio di Vollero, l’appartamento della famiglia Garrone, ma anche la villa delle Tabusso, danno tutti un senso di oppressione e frustrazione, nelle atmosfere cupe come nel mobilio o nei numerosi oggetti souvenir di una vita passata, quasi ad indicare le vite anguste e deprimenti dei loro proprietari.
Si trovano poi gli ambienti labirintici, tortuosi degli uffici cimiteriali e degli uffici tecnici, gestiti dai vari Triberti e Pellegrini, i custodi delle misteriose complicazioni burocratiche che si muovono con naturalezza e maestria – se non con ostentato orgoglio – tra corridoi, porte, camere, anticamere e alti schedari.

Il tema del labirinto si ritrova anche nello spazio esterno del Balùn, il vasto mercato delle pulci torinese, dove merci di ogni tipo, vecchie e sfasciate, sono accatastate sino a formare le alte pareti tra le quali avverrà il secondo omicidio. Se quindi i labirintici archivi degli uffici comunali rappresentano non solo la pedante lentezza della burocrazia ma anche lo stallo delle indagini, la complicazione topologica del Balùn è l’essenza del disorientamento esistenziale di tutta una società. Al Balùn non si reca solo chi come il gallerista Vollero, diviso tra l’animo artistico e il guadagno senza scrupoli, compra di nascosto cornici di seconda qualità per le sue opere da rivendere a prezzi più che maggiorati. Al mercato delle pulci si recano i Lello che non si sentono mai all'altezza di niente e di nessuno, i Bonetto pseudo-acculturati che sperano in un riconoscimento dai circoli accademici, le signore Dosio che vagheggiano trasgressioni di ogni sorta pur di dare una svolta alle loro vite piatte. Ed infine tutte le Ines Tabusso che si fanno giustizia da sole, credendo di fare la cosa più utile e sbrigativa a dispetto dell’inefficienza della polizia.
Questa città confusa e incasinata, in cui “niente è quello che sembra, niente sembra quello che è”[14], ricorda la Milano di Scerbanenco, a cui Fruttero e Lucentini devono molto, soprattutto per la descrizione realistica della realtà urbana dell’Italia contemporanea. Non è sicuramente una giungla inestricabile né il male è cosi dilagante come nella Milano dello scrittore di Venere privata. Nella Torino di Fruttero e Lucentini, l’odore non è di morte, al massimo è odore di fritto[15].  Non si tratta di fango e poltiglia per Torino, ma di una profonda sensualità da scoprire, di zone nascoste che gli ignari, i nuovi arrivati, i turisti, non sanno cogliere. Il commissario Santamaria, un siciliano “all’estero”, sarà incaricato di scoprire la profondità di Torino, non solo l’identità del colpevole. Sarà lui a corteggiare Torino, sentendosi a sua volta incoraggiato da questa città a fare le sue avances ad Anna Carla. Perché “dopo tanti anni che ci abitava, lui sapeva ormai che la leggendaria monotonia della città era un’invenzione di osservatori superficiali, o piuttosto un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si lasciavano ingannare come dal neutro pelame mimetico di un animale appiattato. Sotto quell’apparenza così ovvia, di carta messa in tavola, Torino era una città per intenditori”.[16]
Un atto d’amore dunque nei confronti di questa città ambigua, tra contemporaneità dissacrante e memorie di un passato nostalgico,  dalle mani di due profondi conoscitori di tutte le sue zone d’ombra e di luce, della sua periferia come di quel vecchio centro “chiuso in un guscio forse sicuro, prezioso, inalterabile, o forse invece di una fragilità senza avvenire”[17].

(da Daniela Saitta, Rosa e giallo a Torino. Il poliziesco di Fruttero & Lucentini, Prova d’Autore, Catania 2010, pp. 29-35)





[1]     G. Padovani, Delitti imperfetti: Fruttero & Lucentini fra thrilling e parodia, in Id., L’officina del mistero. Nuove frontiere della narrativa poliziesca italiana, Enna, Papiro Editrice, 1989, p. 163.
[2]     C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, Mondadori, Milano 1972. Ediz. di riferimento: Mondadori, Milano 2001.
[3]     Ivi, p. 192.
[4]     Ivi, p. 57.
[5]     Ivi, p. 192.
[6]     Ivi, p. 121.
[7]     Ivi, p. 192.
[8]     Ivi, p. 22.
[9]    Ivi, p. 164.
[10]    Ivi, p. 22.
[11]    Il termine è di Giuliano Cenati, Le prospettive di Fruttero, Lucentini e le donne della domenica in “Problemi”, gennaio-agosto 2001, n° 119/120, p. 57.
[12]    C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, cit.,  p. 260.
[13]    Ivi, p. 385.
[14]    C. Fruttero, F. Lucentini, A che punto è la notte, Milano, Mondadori, 1979, p. 599.
[15]    B. Meazzi, Il ventre della città nel romanzo giallo contemporaneo: Torino, Bologna e Napoli, in “Narrativa”, 2004, n° 26, p. 122.
[16]    C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, cit., p. 108.
[17]    Ivi, p. 422.
Daniela Saitta
Rosa e Giallo a Torino
Il poliziesco di Fruttero & Lucentini
Prova d'Autore, 2010
Questo testo di D.S. è stato pubblicato la prima volta il 25 agosto 2013.