Il surrectum piacentino in pantaloni di velluto avorio |
◊ Il surrectum piacentino e l’autovalore |51| |
Quando eravamo bambini, e prendemmo una volta il treno, i miei cosiddetti genitori, intanto che stavamo arrivando a Piacenza, questi a me, e gli altri genitori, anche in altri scompartimenti, ci consigliarono di spingere il treno in modo che spingendolo da dentro lo scompartimento, quello non cadeva dal ponte nel fiume cosiddetto Po, il fiume più lungo dell’Italia, quelli dissero in coro. Qualche tempo dopo: ricordai che intanto a Piacenza era scesa una signora, davvero una signora, ricordo, forse aveva sposato uno che aveva studiato al Mondragone dai Gesuiti, certo con i Pignatelli della Cerchiara, era inequivocabile l’allure della signora, anche perché lessi che un inventore stravagante suggeriva di dotare le imbarcazioni a vela di grandi ventilatori, più grandi, anzi grandissimi, degli attuali termoventilatori che mettiamo nei bagni, in modo che potessero produrre da sé il vento necessario in caso di bonaccia, e allora quella signora aveva di certo l’andatura di bolina stretta o larga, e più tardi ancora un maestro zen disse: “la vita è come una strada, non disse che era come una ferrovia, che ferisce ma non può ferire se stessa, come un occhio che vede ma non può vedere se stesso”. E pensai che in qualche modo quella signora era collegata all’occhio e alla strada, e forse, è poco ma sicuro, alle imbarcazioni, mettiamo che il padre o il nonno fosse stato un armatore, è possibile?
SIGMAPOST |22.
Lo spirito aspro del Dasein
Disse Watzlawick:
l’ipnosi praticata da altri è normalmente più efficace dell’autoipnosi, anche
se vi viene impiegata la stessa tecnica di induzione. Di nuovo quindi l’esterno (e senza dubbio l’interazione)
svolge un ruolo decisivo. E quindi, pensai, un buon ipnoterapeuta può imitare
il pezzo di bravura di Münchhausen, tanto che, cavolo, come avevo fatto a non
pensarci prima?, dico: l’enigma dell’autoreferenza, quell’autovalore di quella
signora che era scesa alla stazione di Piacenza: la sua andatura, la sua
allure, aveva qualcosa di riflessivo, come la sicurezza e la fiducia in se
stesso che ha l’ipnotizzatore, che è come se fosse il cosiddetto “genitore” di
Eric Berne commisto allo stato cosiddetto dell’”adulto” a dargli gli imperativi
fino ad abbassarsi all’accenno scurrile, più intrinseco, come quello della
buona pornografia che ha, secondo Watzlawick, effetti più eccitanti delle
fantasie sessuali dello stesso tipo che noi sviluppiamo autonomamente. Vai a
vedere, quella signora, anche senza il vento necessario, aveva lo stesso arco
tra muso e naso cosiddetto Tomahawk, e quindi non poteva non chiamarsi
“Francesca”: l’immagine, almeno quella del corpo, e del suo paletot,
cosiddetto, o poteva essere un trench? L’immagine contiene quindi non solo se
stessa, ma anche il suo creatore nell’atto di creare l’immagine, e allora
quella mi contenne nell’immagine che io m’ero fatta: la sua immagine mi si
volse all’interno, dico sotto il suo trench, e l’interno suo mi si mutò in
esterno, con quelle sue gambe a cavalcioni sulle mie spalle, l’autoreferenza
qui sarebbe la sua o la mia? L’inverno catturato sul treno è più intenso: è
catturato come assenza, catturato fuori. E’ nell’interno, laddove esso è
respinto, che l’inverno è più forte con tutta quella nebbia tra Po e la
campagna prima di arrivare alla stazione di Piacenza: trionfa fuori la nebbia e
preme, e forse lei si bagna→ la sua intensità: Intensità dell’indiretto,
direbbe Barthes, che è un’azione oziosa, veder passare le nubi dal finestrino,
e sentire la forma leggera di ciò che passa tra le sue chiappe; è un puro surrectum: ciò che viene suscitato, ciò
che si erge, surrector, sotto forma
di stretta→ chiusura tra pelo e
mutande, è l’inizio di una parola, o un gesto, quella sua aria con quel suo
trench, chi ci può pensare all’epoca stando così l’età dell’osservatore, ma è
una parola infinita, una deissi, che dispiega l’inverno, che non ha alcuna
ragione di terminare, che frase avrei mai potuto tirarle fuori, o mettergliela
dentro, continuamente, come se fosse l’indiretto dell’inverno e del treno, e di
Piacenza, e del tuo culo anzidetta Francesca, 17 sillabe e le faccio un haiku,
ma quante lettere sarebbero, tra il cosmo nella sua forma immediata e quel suo
maledetto paletot o trench sul suo podice che hanno quelle che si chiamano
Francesca solo a Piacenza, è così, quello il punctum dello spostamento della Terra attorno al Po e al Sole, che
va da sé, dove mai sarebbe se non nel suo cosiddetto, da Georges Bataille, “ano solare”?
Puoi fare:
il suo trench sui
fianchi
là in mezzo
Che potrebbe essere un enunciato definitivo: questo haiku
ha cinquantuno lettere; il suo autovalore
è |51|. L’haiku[i] sarebbe prodotto
dall’abbagliamento di una memoria personale involontaria: descrive, questo
scrisse Barthes, il ricordo inatteso, totale, abbagliante, felice; è fatto
dell’estrema brevità della sua apparizione, intendo di quella Francesca, prima
seduta a parlare, di me?, con i miei cosiddetti genitori, e, poi, nel momento della discesa
dal treno,
è
un dispiego infinito,
che
cosa mi tocca,
la
pietra nell’acqua,
il
rumore, ploc, in riva al Po,
ploc che gaudio
giù l’acqua negli
stivali
Che potrebbe essere un
altro enunciato definitivo: il suo autovalore
è sempre |51|. E lei, allora, che
anno era?, quella Francesca di
quell’anno che ricordo inatteso, totale, maledetto aveva e avrebbe avuto?
[i] Funziona l’haiku come autovalore, ha la stessa forma
“sbagliata”, dal punto di vista grammaticale, sintattico e semantico, del
rivestimento delle suggestioni del famoso ipnoterapeuta Milton H. Erickson, che
giocava coscientemente sulle parole utilizzando magistralmente la confusione
così prodotta. Cfr. →Paul Watzalawick, 4.Principi ipnoterapeutici nella terapia
familiare, in P.W., Il codino del
Barone di Münchhausen, trad.it. Feltrinelli, Milano 1989.