L'apparizione in treno di quella Francesca di Piacenza ◊

Il surrectum piacentino in pantaloni di velluto avorio


Il surrectum piacentino e l’autovalore |51|





Quando eravamo bambini, e prendemmo una volta il treno, i miei cosiddetti genitori, intanto che stavamo arrivando a Piacenza, questi a me, e gli altri genitori, anche in altri scompartimenti, ci consigliarono di spingere il treno in modo che spingendolo da dentro lo scompartimento, quello non cadeva dal ponte nel fiume cosiddetto Po, il fiume più lungo dell’Italia, quelli dissero in coro. Qualche tempo dopo: ricordai che intanto a Piacenza era scesa una signora, davvero una signora, ricordo, forse aveva sposato uno che aveva studiato al Mondragone dai Gesuiti, certo con i Pignatelli della Cerchiara, era inequivocabile l’allure della signora, anche perché lessi che un inventore stravagante suggeriva di dotare le imbarcazioni a vela di grandi ventilatori, più grandi, anzi grandissimi, degli attuali termoventilatori che mettiamo nei bagni, in modo che potessero produrre da sé il vento necessario in caso di bonaccia, e allora quella signora aveva di certo l’andatura di bolina stretta o larga, e più tardi ancora un maestro zen disse: “la vita è come una strada, non disse che era come una ferrovia, che ferisce ma non può ferire se stessa, come un occhio che vede ma non può vedere se stesso”. E pensai che in qualche modo quella signora era collegata all’occhio e alla strada, e forse, è poco ma sicuro, alle imbarcazioni, mettiamo che il padre o il nonno fosse stato un armatore, è possibile?

SIGMAPOST |22.
Lo spirito aspro del Dasein

Disse Watzlawick: l’ipnosi praticata da altri è normalmente più efficace dell’autoipnosi, anche se vi viene impiegata la stessa tecnica di induzione. Di nuovo quindi l’esterno (e senza dubbio l’interazione) svolge un ruolo decisivo. E quindi, pensai, un buon ipnoterapeuta può imitare il pezzo di bravura di Münchhausen, tanto che, cavolo, come avevo fatto a non pensarci prima?, dico: l’enigma dell’autoreferenza, quell’autovalore di quella signora che era scesa alla stazione di Piacenza: la sua andatura, la sua allure, aveva qualcosa di riflessivo, come la sicurezza e la fiducia in se stesso che ha l’ipnotizzatore, che è come se fosse il cosiddetto “genitore” di Eric Berne commisto allo stato cosiddetto dell’”adulto” a dargli gli imperativi fino ad abbassarsi all’accenno scurrile, più intrinseco, come quello della buona pornografia che ha, secondo Watzlawick, effetti più eccitanti delle fantasie sessuali dello stesso tipo che noi sviluppiamo autonomamente. Vai a vedere, quella signora, anche senza il vento necessario, aveva lo stesso arco tra muso e naso cosiddetto Tomahawk, e quindi non poteva non chiamarsi “Francesca”: l’immagine, almeno quella del corpo, e del suo paletot, cosiddetto, o poteva essere un trench? L’immagine contiene quindi non solo se stessa, ma anche il suo creatore nell’atto di creare l’immagine, e allora quella mi contenne nell’immagine che io m’ero fatta: la sua immagine mi si volse all’interno, dico sotto il suo trench, e l’interno suo mi si mutò in esterno, con quelle sue gambe a cavalcioni sulle mie spalle, l’autoreferenza qui sarebbe la sua o la mia? L’inverno catturato sul treno è più intenso: è catturato come assenza, catturato fuori. E’ nell’interno, laddove esso è respinto, che l’inverno è più forte con tutta quella nebbia tra Po e la campagna prima di arrivare alla stazione di Piacenza: trionfa fuori la nebbia e preme, e forse lei si bagna→ la sua intensità: Intensità dell’indiretto, direbbe Barthes, che è un’azione oziosa, veder passare le nubi dal finestrino, e sentire la forma leggera di ciò che passa tra le sue chiappe; è un puro surrectum: ciò che viene suscitato, ciò che si erge, surrector, sotto forma di stretta→ chiusura tra pelo e mutande, è l’inizio di una parola, o un gesto, quella sua aria con quel suo trench, chi ci può pensare all’epoca stando così l’età dell’osservatore, ma è una parola infinita, una deissi, che dispiega l’inverno, che non ha alcuna ragione di terminare, che frase avrei mai potuto tirarle fuori, o mettergliela dentro, continuamente, come se fosse l’indiretto dell’inverno e del treno, e di Piacenza, e del tuo culo anzidetta Francesca, 17 sillabe e le faccio un haiku, ma quante lettere sarebbero, tra il cosmo nella sua forma immediata e quel suo maledetto paletot o trench sul suo podice che hanno quelle che si chiamano Francesca solo a Piacenza, è così, quello il punctum dello spostamento della Terra attorno al Po e al Sole, che va da sé, dove mai sarebbe se non nel suo cosiddetto, da Georges Bataille, “ano solare”?
Puoi fare:

Il vento d’inverno soffia
il suo trench sui fianchi
là in mezzo
Che potrebbe essere un enunciato definitivo: questo haiku ha cinquantuno lettere; il suo autovalore è |51|. L’haiku[i] sarebbe prodotto dall’abbagliamento di una memoria personale involontaria: descrive, questo scrisse Barthes, il ricordo inatteso, totale, abbagliante, felice; è fatto dell’estrema brevità della sua apparizione, intendo di quella Francesca, prima seduta a parlare, di me?, con i miei cosiddetti genitori, e, poi, nel momento della discesa dal treno,
è un dispiego infinito,
che cosa mi tocca,
la pietra nell’acqua,
il rumore, ploc, in riva al Po,

→ Quel fiume d’inverno
ploc che gaudio
giù l’acqua negli stivali
Che potrebbe essere un altro enunciato definitivo: il suo autovalore è sempre |51|. E lei, allora, che anno era?, quella Francesca di quell’anno che ricordo inatteso, totale, maledetto aveva e avrebbe avuto?

[i] Funziona l’haiku come autovalore, ha la stessa forma “sbagliata”, dal punto di vista grammaticale, sintattico e semantico, del rivestimento delle suggestioni del famoso ipnoterapeuta Milton H. Erickson, che giocava coscientemente sulle parole utilizzando magistralmente la confusione così prodotta. Cfr. Paul Watzalawick, 4.Principi ipnoterapeutici nella terapia familiare, in P.W., Il codino del Barone di Münchhausen, trad.it. Feltrinelli, Milano 1989.