Abstract Shadow |
l'informale naturale |
c'è un corvo sullo zig-zag |
differenza: dal male spigoloso le tracce fino alla porta |
solitudine: graffiti mentali |
patate & bic rouge |
il futuro |
➟"quattro
racconti tratti dalla prima parte del mio nuovo libro, in preparazione, la sua
revisione è stata più laboriosa e ostica del previsto. Sono narrazioni ispirate
al periodo 2000-2020. Le "illustrazioni": una sequenza tratta da
"Abstract Shadow".
Carlo Pava
quattro racconti
⟥ finestre chiuse
[2006]
Una finestra: la trasparenza ipocrita su
un quartiere di provincia [la piccola periferia] e nelle stanze
dell’appartamento la mobilia decorosa, nei cassetti le scatole piene di
bigiotteria e gioielli, le pietre preziose, un ersatz se bastava osservare le stelle
in un cielo notturno. Il cielo perenne non illuminava l’esistenza grigia.
Restavano le grandi gallerie d’arte
affiliate al mercato imposto dai critici che contavano [quando contavano,
contando i contanti, gli assegni, i bonifici]. Le altre, botteghe gestite dai
trafficanti e frequentate dagli ingenui d’ogni genere [nei covi della
mediocrità], chiudevano i battenti nell’indifferenza. I musei, il massimo
rispetto per i musei, ma quando i conservatori trattavano le arti
contemporanee, accoglievano le proposte per servilismo nei confronti dei
cattedratici [con cattedra o senza, adulando i favoriti del principe per
conquistarsi i loro protettori [una parafrasi dall’Utopia di Thomas More,
estrapolando: nell’insieme tutto era infernale, come tanti fuori-luogo del
genere, i regimi concentrazionari con qualcosa di positivo].
⟥ ologrammi
Nel piccolo mondo di periferia mi
rimaneva una seconda casa. Tante cianfrusaglie nei cassetti nell’epoca di
internet, l’Allegoria della Meschinità. Dopo un’ora di macchina a media
velocità, anche con un traffico sostenuto, ci si poteva trovare su una spiaggia dell’Adriatico.
Leggere un indirizzario, rimasto là, mi
faceva invadere da una depressione da operetta, detto in termini leggeri,
sorridendo, con un linguaggio terra-terra. Tanti nomi, amici, conoscenti,
parenti, sconosciuti o persone note, da varie parti del mondo: a volte con
alcuni trattavo, per frequentazioni e impegni. Ma solo nelle ore vuote, in
relax o in vacanza, apparivano privi d’importanza [a livello soggettivo, sia
chiaro]. Non avevo voglia di comunicare con nessuno, eliminato il telefono
fisso, da poco tempo con un nuovo cellulare, con un nuovo numero conosciuto da
pochissimi, tutti ciechi.
Mi divertiva di più farmi contattare da
ignoti, nel villaggio globale, senza illusioni, come un gioco fine a se stesso:
chattare, così si diceva in quell’epoca, prima della fine. Una sorta di ersatz,
pimenti cerebrali o un passatempo usa e getta. Solo in rarissimi casi poteva
esserci un seguito, più o meno prolungato nel tempo e nello spazio, a questo
punto inaugurando una frequentazione destinata a concludersi nella disistima
rabbiosa, come le precedenti: occorreva, quindi, una manifestazione in piazza
contro l’odio. Fantasmi presentati da soggetti virtuali, inesistenti, ologrammi,
ma gli zombi in carne e ossa risultavano più reali?
⟥ internet
All’inizio scettico, poi deciso a
collegarmi e a usare la posta elettronica, ritardatario come il solito, davvero
una notizia rilevante. Come avveniva di norma, mi imbattevo per caso in un sito
di annunci e in particolare in una rubrica dedicata alle relazioni e agli
incontri. Avevo risposto ad alcuni, curioso e pronto a nuove avventure limitate
nel tempo, soprattutto nelle dimensioni pacifiche, terra-terra, da cittadino
comune asservito alla TV.
Per quale ragione sarebbe stato più
dignitoso frequentare i vicini di casa e chi ci veniva presentato da
conoscenti, parenti e amici, secondo la tradizione dei tempi passati? E in
esclusiva nel nostro “ambiente” in un’epoca in cui dominava, democraticamente,
il mix di tutto? Quante volte ci vedevamo costretti ad appioppare giudizi poco
lusinghieri ed epiteti offensivi a molti dell’entourage, anche se noti o famosi
o sic et simpliciter “di qualità” [“è un cretino”, “è uno stupido”, “poverino, non
ci arriva”]? Allora, perché non affrontare un nuovo mare magnum senza
pregiudizi? Scoprire le realtà più sorprendenti della routine della vita
grigia. Comunque, nessuna volontà sistematica, nessuna velleità sociologica o
filosofica. I banali frammenti di una “navigazione” in internet: la chat, le
foto, gli spezzoni di un carteggio virtuale.
Innanzitutto, la massima deferenza per
ogni forma viva, così ci veniva insinuato in TV, come antifrasi subliminale.
Diventando un inserzionista moderato e un lettore di annunci, mi mettevo sullo
stesso piano di chiunque, di tutti noi cittadini comuni, ognuno nel proprio
stato civile da tenere in ombra per privacy. Un caso specifico: un single di
fatto, per condizione anagrafica o per scelta o in un’alternativa mentale in
sostituzione di un’esistenza insoddisfacente. Poi la volontà di dare un taglio
preciso, neo-perbenino, eliminando la pornografia e la pornolalia
[inarrestabili, di massa], le sbandierature erotiche, e così via. Eccone uno
intitolato “incontri ad ampio raggio”, un esempio: “Vorrei conoscere persone
maggiorenni [signore, signori, coppie] per conversazioni in salotto su vari
temi [libri, mostre di pittura, attualità, attualità politica]. Ovviamente,
soldi e regali, compresi i conti al bar e le rose rosse con le spine, da
escludere nel modo più assoluto. Non è ipocrisia. Solo simpatia e se c’è
feeling”. Ricopiavo correggendo le sgrammaticature.
Oppure un messaggio per conoscere
persone non interessate al football. Non ne potevo più: il “campionato del
mondo” dalla mattina alla sera. In televisione riuscivano perfino a mettere in
secondo piano gli avvenimenti politici più importanti per dare spazio allo
sport. L’Italia: una repubblica fondata sul calcio, panem et circenses. Tutti
quei tifosi frustrati, ogni goal della “loro” squadra veniva vissuto come una
rivincita personale, l’impressione di una vittoria negata nella loro
quotidianità [convincente scrivere “un’esistenza che non esisteva”]. Penoso
vederli piangere e disperarsi per una sconfitta subita dagli idoli o se
saltavano di gioia per un esito positivo, a parte le oscene violenze dei
cosiddetti ultras sostenitori di un’industria e degli imprenditori straricchi e
lontani.
L’Italia contro la Germania, l’Italia
contro la Francia, OK, sia pure, a livello agonistico in senso positivo, come
una città per spirito ludico contro un’altra città, un quartiere in allegria
contro un altro quartiere: se giocavano i giocatori appartenenti a una nazione
[compresi gli ex stranieri naturalizzati], a una regione. Invece ogni squadra
era composta da mercenari pronti a vendersi ai migliori offerenti: “Oggi
parteggio per la Juventus ma i miei giocatori preferiti domani emigrano
altrove, se la smammano là per farsi pagare di più”. Continuavo a tifarli
facendo nel contempo il tifo per una squadra rivale?
Segnalare i passi altrui, le loro
considerazioni più pregnanti, come se fossero parenti, conoscenti e amici, autori
di articoli, di saggi, di libri, sullo stesso piano dei nostri poveri scritti,
buttati giù male, scorretti dal punto di vista grammaticale e sintattico, per
lo più brevissimi o brevi. Una creatività diffusa [la “creatività”, la parola
generica dei cosiddetti creativi], l’utopia dell’arte letteraria alla portata
di tutti. Ognuno di noi poteva comunicare un vocabolo geniale, un neologismo
azzeccato, una locuzione icastica, una riflessione degna di nota, p.e.: “Dalle
relazioni e dalle interazioni nascono l’esperienza e la conoscenza... non mi
piacciono le conversazioni da salotto, servono solo a esercitare i muscoli
facciali... il passato dovrebbe essere un trampolino per il futuro?”.
Le parole astratte. Potevano svilupparsi
anche dal “divertissement” [Blaise Pascal non sarebbe stato d’accordo… o forse
sì, chissà]. Le “conversazioni da salotto” si trasformavano in un gioco, il
giocare a carte più o meno scoperte, se si decideva di affrontare la
ricognizione del mondo, divenuto eccessivo, con ironia e in mancanza delle
illusioni dell’opportunismo. Rendersi conto del contesto edonistico
corrispondeva alla pulsione di intrecciarne il passato, il presente e il futuro
per suggerire nuove regole ludiche, risolvendo tutto in una dimensione mentale,
in compagnia degli spettri vagolanti in un giardino sotto il chiaro di luna,
nella convinzione di stare in una giornata soleggiata ma oscurata da un’eclissi
in rima. Certo, la realtà era brutale, si sapeva: eppure la giovinezza aveva
sempre avuto le sue difficoltà, a poco a
poco dimenticate dall’età matura [da un eufemismo]. Perché, infine, farsi
prendere in contropiede da qualcosa di irrazionale come la depressione di cui
si parlava nei talk show della televisione generalista?
A volte si enfatizzava la parola
“depressione” [da qualcuno definita una condizione alla stregua della mobilia
shabby chic], ritenuta una minaccia incombente ma vaga o la paura di
conoscerla, succedeva a molti: “la noia in agguato”, “le domande angoscianti”.
Lasciarla da parte, relegarla alla canicola raffreddata del sole nero, la
deliziosa formula barocca con un ossimoro in sintonia, sperando per sempre.
Tuttavia, serpeggiava, inoltre, un’impressione di vuoto senza un’occupazione
decisiva, non sapere cosa fare, il tempo libero, i temuti effetti della saudade
derivata dalla solitudo: partorire le domande più inopportune, tutto questo
riportava al succitato “divertissement”, non il “divertimento” come lo
intendevamo di comune accordo in quanto insegnato da un docente di filosofia,
in gioventù, quando ci credevamo, ma “la volontà di distogliere la mente dalle
preoccupazioni con occupazioni di vario genere”. Citavo a spanne, non avevo
sottomano il volume dei “pensieri” incompiuti: comunque, intendeva esprimere un
concetto alla portata di tutti, nessuno doveva allontanarsi dall’idea fissa di
“Dio” e della religione, con tutti i connessi soppiantati dalla connessione,
nemmeno gli atei.
Ritornando nella nostra valle di
lacrime, una vallata percorsa da un fiume in secca, dove i “contenuti
applicativi” o le realtà banali spadroneggiavano fino a renderci succubi [nella
dialettica padrone-schiavo], ci restava l’esperienza, bella o brutta, nel bene
o nel male: insegnava come non fosse obbligatorio rinunciare all’evasione, al
gioco, all’illusione della propria individualità [ma potendo chiacchierare sui
singoli concetti, non per forza di cose, un dato non scontato]. Ne derivavano
uno humour e uno spirito ironico non in contrasto con una stratificazione
tragica. E, infatti, restava latente il dramma dell’intelligenza di chiunque o
delle sue versioni più misteriose e dolci: l’acume, la sensibilità,
l’ipersensibilità, la dimensione esagerata in sordina. Senza sbruffonerie,
così, venivamo indotti a valutare criticamente le persone e quanto passava il
convento, gli avvenimenti, il mondo, sia sbagliando sia azzeccando.
Insomma: in pieno nel villaggio globale
preconizzato da Marshall McLuhan. Nella “philosophie dans l’internet”,
parafrasando un famoso marchese. In tutta evidenza, un “boudoir” sadiano, lo
dimostrava la quasi totalità dei messaggi letti on line, spesso estremamente
espliciti nelle visioni orgiastiche e nei desiderata, con tanto di fotografie
nelle comunicazioni ricevute, più o meno riconducibili alle aspettative
erotiche nell’immediato o alla lontana, per quanto sfumate e senza seguito, a
volte, e a volte no, al contrario. Non intendevo riferirne una selezione di
esempi: esistevano le bibliografie settoriali. Accennavo solo all’idea della
simpatia, da cui poteva scaturire il resto: una sintonia. La predisposizione ad
ascoltare gli sconosciuti, a farsi notare nella superficialità, come da sempre
succedeva a tu per tu fra i viaggiatori, in diligenza o in treno.
In un messaggio un trentenne faceva
praticantato in un’attività professionale, post-laurea, lontanissima dalla
creatività letteraria-artistica, se non all’opposto. Per sottolineare il
proprio interesse per la scrittura e la pittura, ma solo come lettore e
visitatore nel tempo libero, riferiva con intelligenza: “Anche se sono tutto il
giorno alle prese con leggi e cifre, non ho una testa quadrata”. La “testa
quadrata”, ah ah ah: una formula degna di un surrealista. Del resto nel 1910
Antonio Rubino aveva ideato un delizioso personaggino, un bambino, in rima,
figlio di mamma Geometria, la zia Algebra e la nonna Matematica: con la testa
quadrata, Quadratino.
A volte, in un entusiasmo da
principiante, mi lasciavo scadere nel poemetto in prosa, una vena poetica
incalzante, intermittente, perché reprimerla? Ecco: “La mattina mi alzo presto,
mi piacciono i colori bistrati che, filtrando dalle finestre semi-aperte, danno
una patina biancastra-grigiastra ai mobili nelle varie stanze”. La rivoluzione
della comunicazione e dei rapporti interpersonali. Un ulteriore decadimento
della letteratura, un settore allargato alla base, un colpo basso alle case
editrici, ce ne saremmo accorti a poco a poco. Alcuni “contatti” andavano in
porto, molti naufragavano. L’importante: il flusso continuo della dimensione
virtuale, una perversione inedita. L’interazione evocata ma fantomatica tra i
fedeli di questa nuova setta, nei messaggi pubblicati e nelle risposte, nella
chat a tempo pieno.
In fine-estate cominciava il
ripensamento in senso critico e autocritico e con l’incipit di questo paragrafo
si intuiva la volontà di portare a termine il racconto. Non una vera e propria
delusione, forse la conclusione dell’entusiasmo di un neofita, o no, si
trattava dall’inizio, di un cerchio, di un ouroboro, la partecipazione formale
di un anaffettivo. Una novità coscientemente vissuta, sapendo che prima o poi
sarebbe sopravvenuta la noia.
Ipotizzavo un annuncio per conoscere uno
psicologo professionista per farmi illuminare con un linguaggio tecnico su un
aspetto dell’esistenza che mi frullava nella mente, fondato sulla mia
esperienza, mantenendo la rima. Infatti, spesso gli utenti dei “siti sociali”
lasciavano “cadere” un “contatto” senza neppure la briga di verificare se il
“corrispondente” avesse o no i “requisiti” richiesti: se una persona fosse
bella o brutta, distinta o cialtrona, simpatica o antipatica, colta o
ignorante, e così via. A volte non bastava neppure l’evidenza della sintonia
con le aspettative. Nessuna contro-risposta, le e-mail senza un seguito: un
tale fissava perfino un appuntamento per una chiacchierata in un pub, con una
ulteriore conferma telefonica, dandola buca. Un tizio nella sequela delle
tergiversazioni di rito durate per mesi scompariva dopo averlo accolto in casa
per accordarci per la ricompensa per il disturbo [si era offerto di farmi da
modello per un fumetto ideato sia come sceneggiatura sia con abbozzi e con
qualche storyboard: “la vita quotidiana di Franz Mensch”]. In entrambi i casi
una telefonata, per le legittime spiegazioni, veniva troncata senza nemmeno una
parvenza di risposta. N.d.C.: doveroso ricordare che non ero io, l’io narrante
era un io moltiplicato.
Mitomania, stupidità, mercimonio deluso?
Mi convincevo di essere tutti noi un po’ psicolabili. I fuffaroli e i
truffatori veri e propri non scarseggiavano, me ne sentivo abbastanza
informato, incontrati a livello potenziale. Decidendo di rifiutare qualcuno,
prima cercato o perfino sollecitato, finalmente si sentivano importanti,
protagonisti, con il potere di “decidere la vita o la morte di un rivale”, sia
pure come un ersatz. Trovavano una compensazione alle frustrazioni quotidiane,
oltre alla solita predisposizione a evitare di stare vicino a un tale
individuato come una persona “superiore”… ma chi credeva di essere, poi, quello
là, in confronto alla Regina Elisabetta o al Presidente degli USA [e getta] o a
tanti miliardari? Mi esprimevo in termini semplici ma chiari: due volte,
provando a porre il problema, così, tanto per chiacchierare, in entrambi i casi
mi vedevo bersagliato ricevendo risposte dure e offensive, in tutta evidenza
coglievo nel segno di brutto. Un cinquantenne, ritenuto abbastanza saggio
proprio per merito dell’età, dichiarava di detestare le “persone ipocrite” come
il sottoscritto, compiendo un omicidio in pectore, un assassinio rituale ma
virtuale: come osavo giudicarlo in forma indiretta? Con tutta la supremazia
della qualità di cittadino comune.
Mentre Tizio e Caio [in una sola
persona], in particolare, si rivelava nero su bianco con un’iscrizione eterna
su una lastra di marmo, una sintesi codificata. Mi chiedeva in un imperativo
laconico di auto-presentarmi, ovviamente sorvolando sulla risposta, passato ad
altre chat con altri utenti, girando a vuoto come uno scoiattolo in una gabbia
in forma di ruota. La ruota girava, il tempo passava. Quando si ripresentava
l’occasione [non ricordava], […] nella solitudine, immagino, tipicamente
vissuta dalle ninfomani, via uno sotto un altro [una sintassi frammentaria, un
periodare scheggiato e trascritto dal curatore alla meno peggio]. Evitando di
fornirgli un autoritratto, anzi, facendogli notare l’opportunità di ulteriori
indicazioni per permetterci di riconoscerci o no nelle aspettative, accennando
in stile circolare a quanto esponevo nel racconto intitolato “internet”:
“All’inizio scettico, poi deciso a collegarmi e a usare la posta elettronica, infine
in grado di considerarmi edotto, esperienze su esperienze”.
La parola “potere”. Aggiungendo:
descrivermi nei dettagli appariva abbastanza ridicolo, preferibile vedersi in
faccia dal vivo [e non in web-cam], come in passato quando si veniva presentati
a qualcuno da qualcuno o se in un locale pubblico ci si avvicinava a una
sconosciuta o a uno sconosciuto con un inchino porgendo un biglietto da visita.
Un atteggiamento rispettoso, il mio, nessuna volontà di ferire, un buonsenso
terra-terra: verificare un certo feeling. Una risposta seccata, uccidendomi in
pectore, affermando di preferire le “persone dirette e chiare” [traduzione: “le
persone che fanno regali o che pagano per qualsivoglia prestazione del tipo
‘dama di compagnia’ o escort”]. Le prediche in chiesa, i miei “discorsi
filosofici e sofistici” stavano fuori luogo, la netiquette imponeva di
rispondere alle domande.
Il primo impulso: ribattere in termini
pacati per riferire le mie ragioni. Nell’ ingenuità di un padre di famiglia in
crisi e in cerca di distrazioni extra-coniugali, non avendole mai praticate se
non di sfuggita e con rimorso, non conoscendo quegli ambienti, in difesa mi
limitavo ad accampare le vaghe annotazioni psicologiche dell’uomo della strada
[“street”], uno sprovveduto people. L’etichetta e il galateo riguardavano la
vita quotidiana, almeno in passato, non solo l’internet. Infatti, ribadivo la
critica: rispondere in modo schematico appariva un approccio burocratico, le
parole usate nei messaggi come mettere crocette in varie caselle, sì o no, F o
M. Confermava quanto contestavo: si pretendeva il depositario del potere di
porre le domande, non accettando le obiezioni. I quesiti rientravano nel genere
dei moduli da compilare in stampatello, mentre al contrario osavo un approccio
sfumato per rompere gli argini della pulsione standard dell’impiegato di una
banca o degli altri sportelli. Insomma: perdeva le staffe perché gli stavo
sottraendo la possibilità di rifiutarmi in modo arbitrario. Infatti: mi bollava
come una persona “non diretta, non chiara” [implicitamente, non di suo
gradimento], per l’eternità, mai visti e mai sentiti, il mondo pullulava di
utenti del social network, noi tutti intercambiabili, tutti microbi o, nella
migliore delle ipotesi, insetti, le specie di insetti si annoveravano nel giro
di almeno un milione.
Il secondo impulso, bontà mia: non avevo
contro-risposto, lasciandogli il vantaggio dell’ultima replica, le illusioni
dei cittadini comuni dalla psicologia standard, come quella del sottoscritto,
un padre di famiglia stanco della routine quotidiana, incuriosito dalla
pubblicità anti-tabù e dalla liberalizzazione dei costumi, dalle certezze del
galateo informatico alle trasgressioni. Tutto scagionato e il contrario:
compreso l’orgoglio del cercatore di compensi in un ingranaggio
concentrazionario. La nostra vita diventava un parco di macchine celibi. Con
una sorta di clic fotografico, con un leggero tocco del mouse cancellavamo
l’esistenza, come un Tizio e Caio anonimo, ognuno di noi, un colpo di spugna
sulla nostra presenza nel mondo. In termini tecnici: “eliminati”, “annullati”.
⟥ le mosche di Friedrich Nietzsche
“Dove
finisce la solitudine, ivi incomincia il mercato, e dove incomincia il mercato,
ivi incomincia lo strepito dei grandi commedianti e il ronzio delle mosche
velenose. […] Ripara, amico mio, nella tua solitudine. Ti vedo tutto
punzecchiato da mosche velenose. […] Troppo sei vissuto vicino ai piccoli e ai
miserabili: salvati dalla loro invisibile vendetta! Contro di te essi tutti
anelano la vendetta. […] Sono innumerevoli e tu non devi avere per sorte
l’ufficio di un cacciamosche. […] Essi ti ronzano intorno anche con la lode.
[…] ti odiano […] ciò che in te è grande non fa che renderli più desiderosi di
nuocere. […] Così parlò Zarathustra”.
Un
racconto in forma di citazione con varianti formali, queste, sorry, me le permettevo
con devota umiltà, per sintetizzare e attualizzare, ammirando il grande
filosofo. Iniziava l’epoca delle interazioni umane per caso, irretite,
bisognava stare sempre attenti ai tranelli. I sedicenti amici si avvicinavano
come vampiri cercando di succhiare il sangue degli autori considerati migliori
da loro stessi in primis. Cominciavano con le lodi per dare una coltellata alla
schiena con più facilità, invitando una persona a salire su un piedestallo per
abbassarla subito dopo, facendola scendere al livello degli altri il cui
animale totemico si configurava come una mosca: il bosco di Birnam verso il
castello di Dunsinane nel “Macbeth” di William Shakespeare. L’epoca dell’arte
alla portata di tutti, fatta da tutti, secondo il luogo comune.
Ma lo
spunto iniziava da una mia annotazione elementare estrapolata da un diario, non
più redatto con una penna stilografica o con una biro ma come videoscrittura:
“Ci sono quattro grandi sciagure per l’umanità: le zanzare, le mosche, la
burocrazia, la provincia”.