Abstract Shadow [in verticale] |
Carlo Pava ⟤
otto racconti
⟥remake
[2009]
Un gap. Uno spazio temporale non
descritto, a nessuno veniva in mente di chiedermene la ragione, un ottimo
motivo per dimenticarlo e farlo dimenticare. Oppure coincideva con uno stile
ellittico più o meno casuale: piaceva ai
fumettisti, così raccontavano con meno fatica, disegnando meno tavole, spesso a
scapito della comprensione della continuità narrativa da parte dei lettori. Nel
tono, specularmente, chissà perché, ci vedevo qualche misteriosa analogia con
la scandalosa canzonetta della fine degli anni sessanta, “je t’aime… moi non
plus”, leggera, nonchalante nel sex senza implicazioni sentimentali.
Però insuperata e insuperabile restava
Maria Callas quando si esibiva in attesa di dare avvio all’habanera:
imperterrita continuava la musica eroica dell’orchestra, con molto movimento,
mentre la diva in silenzio se ne stava in piedi al centro del mondo e sotto i
riflettori del palcoscenico, di sicuro non imbarazzata, nella massima economia
dell’espressione fisiognomica, concentrata, e poi, di colpo, sul volto le appariva un lampo di perfidia, gli occhi
riderelli nella luce fosca della cattiveria, le labbra pervase da un tocco di
malizia definitiva… e iniziava dando una coltellata: “Si tu ne m’aimes pas… je
t’aime… si je t’aime… prends garde à toi!”. Mentre Renata Tebaldi, più
compassata, nella sua carriera si dedicava completamente allo studio, alla
perfezione vocale, all’interpretazione senza incrinature, alla classe di un
grande soprano.
Inutile cercare di spiegarmelo e tentare
di spiegarlo, non interessava né a me né ai lettori se saltavo di palo in
frasca: il pretesto si risolveva in un racconto per il racconto, senza cornici
o con cornici danneggiate a volte scassate in rima al punto da non poterle utilizzare
nemmeno facendole restaurare. Di solito in certi periodi… sempre, la parola
inadeguata, e allora subentrava la pulsione pittorica, sopraffatta dal trend
fotografico o cinetico, dissolto dall’astrazione delle visioni iperrealistiche
con ossimori continui dei satelliti artificiali, e così via.
lettere non scritte |
Allora procedevo a tentoni e alternavo
la letteratura alle arti visive ma imponendomi di non rifletterci o quantomeno
non più di tanto: p. e., in quei giorni definiti “gap”, sperimentavo una tela
quasi monocroma, geometrica e fredda [non informale, decisamente no, con
acrilici e inchiostro] sulla quale stavo trascrivendo un recente pseudo-koan.
In sovrappensiero, invece di copiare “una fotografia mentale può illuminare una
stanza buia”, avevo modificato l’enunciato senza accorgermene: “Una fotografia
mentale può sostituire una lampada spenta?”.
***
Cfr. la simbologia del numero sette:
sette anni, un diario di sette anni ridotto a una settimana nel remake con la
videoscrittura con il PC. Tante cornici rotte, non più restaurabili, gettate
nella pattumiera, anzi, il senso civico giustamente esigeva la destinazione del
cassonetto della raccolta indifferenziata. Se fosse stato un film o più
modestamente la performance di un artista fluxus le avrei staccate dalle pareti
del salotto-soggiorno, scagliate sul pavimento, non prima di sbatterle contro
qualche spigolo della mobilia, poi calpestate, prese a martellate, i vetri in
frantumi raccolti con uno scopino e una paletta per destinarli ai loro
specifici contenitori per l’asporto da parte, non degli “spazzini”, degli
operatori ecologici. Sotto lo sguardo impassibile di un fotografo e/o di un
video-maker per documentare l’azione da
esibire in un luogo sacro in trionfo dicendo al direttore e al conservatore:
“Abbasso i musei… ricordatevi di me!”. Analogamente, nel settore letterario.
Con un po’ di allenamento, con un po’ di
esercizio mnemonico, nella memoria gli esiti li ricostruivo abbastanza, i sette
peccati capitali di tutti noi esseri umani e i sette colori dell’arcobaleno,
tuttavia non ne riconoscevo l’opportunità: anni sprecati erano e anni sprecati
restavano, senza nemmeno rimpiangerli, data l’inconsistenza incombente giorno
per giorno, mese per mese: ognuno nel proprio hortus conclusus, a volte
naturale, a volte artificiale, in stato di veglia o durante il sonno.
⟥la giovinezza
[o la morte]
[2016]
Stavo con un collega o con una
sua raffigurazione sfocata in uno stand all’aperto in una località balneare
quando erano entrati due tipi incuranti della nostra presenza di legittimi
proprietari. Uno, più giovane, diceva all’altro [un committente in giacca e
cravatta ma trascurato e dall’aspetto vagamente grottesco]: “Questo quadro no, è
brutto, magari gli altri…”. Me ne rendevo conto: stavano organizzando un furto
di opere d’arte. Eppure, inerme, osservavo la scena con fatalismo.
aggressivo |
Da solo nello stand quando entravano
alcune ragazze chiassose e arroganti, ostentando parolacce e volgarità. Si
sedevano sugli schienali delle poltrone e del divano, mi venivano addosso di
schiena sfiorandomi con il sedere, mettevano a soqquadro gli oggetti esposti.
Con il cellulare in mano stavo per digitare il 113 ma già quelle se ne andavano
ridendo.
Subito dopo ne entrava un’altra, molto
giovane, come una furia, e l’avvertivo: “Chiamo la polizia”. Ma, mentre riprendevo
il telefono, girandomi dalla sua parte, lo sguardo la inquadrava in primo
piano, anzi, solo il volto, come diventata un ritratto fotografico, seduta
compassata con un’espressione indefinibile che mi raggelava: dire “mite” o
“innocente” no, non era propriamente questo, non aveva nemmeno un’aria di
rimprovero, sembrava rassegnata ma con orgoglio. Nella mia mente balenava una
sorta di slogan: “Non ha un futuro”. Così, dopo un paragrafo ellittico o
addirittura cancellato del tutto, come per dimenticare un’incrinatura
sentimentale, mi avviavo con quella ragazza su un lungomare in fine stagione
balneare, in una luce grigiastra senza contorni netti nell’allineamento degli
edifici, in silenzio, fianco a fianco, accompagnati da una terza persona
invisibile.
⟥la fuffa e i fuffaroli
[2018]
E
noi ingenui pensavamo al "Manifesto di Ventotene" e agli ideali europeisti
di Altiero Spinelli. In quell’epoca al tramonto spesso le persone di qualità,
le persone abituate a frequentare la cultura di
livello, sprovvedute, incappavano nella fuffa, a contatto dei malintenzionati
ipocriti che le studiavano tutte per spillare soldi con le strategie dei tempi più
o meno lunghi. Si assisteva a un dilagare della furfanteria, della
truffaldineria, della corruzione quotidiana, della cialtroneria non disinteressata,
non appena si usciva di casa o ci si coinvolgeva nei rapporti di vicinanza.
Tutto di piccolo cabotaggio: la miseria morale in tutta probabilità rispecchiava
una vera e propria mancanza di risorse pecuniarie, il riflesso della
congiuntura economica. Ovviamente negli ambienti della mala di professione e della
politica la posta in gioco assumeva dimensioni assai più elevate. Un giorno
fotografavo alcuni graffiti anonimi sui muri della città e in uno, un esempio
di saggezza popolare o, meglio, di critica sociale, stava scritto: “polizia
dappertutto – giustizia da nessuna parte”. Ecco, così evitavo un romanzo
storico o un romanzo-fiume.
⟥i libri senza pagine
[2019]
A periodi ogni volta interrotti alternavo la volontà di dedicarmi alla
letteratura e alle arti visive alla decisione di abbandonare tutto per darmi
all’esistenza normale, per così dire, di qualsiasi persona estranea [tenute
sullo stesso piano senza scegliere l’una o le altre], dimenticando. E si
direbbe già dalle elementari, primi anni cinquanta: ricordavo un foglione di
carta grigia pallida per incartare alimenti, su cui avevo disegnato una sorta
di fumetto, nello stile infantile, con l’unica veduta di un quartiere
innevato pieno di personaggini.
Un miracolo se il maestro lo avesse conservato e un fatto ancora più sbalorditivo
se poi fosse passato agli eredi. Per ridere: il Tempo inesorabile distruggeva tutte
le opere d’arte, e non solo le avanguardie e le avanguardie delle avanguardie e
la fine delle avanguardie, ma anche i capolavori considerati immortali. Cosa ne
sapevamo se perfino il Pianeta Terra si destinava a estinguersi con tutti i
suoi insetti [tutti noi], microscopici come la polvere e nemmeno quella? Per
dire: nei primi anni settanta avevo realizzato una piccola scultura in cartone
e carta, risolta come la rilegatura grigia di un libro inesistente, dettata da una
pulsione ludica, fra tante sperimentazioni, ma a distanza di tempo, me ne
convincevo, invece … si trattava di un oggetto serio: esprimeva con esattezza questo
ricordo e questo racconto. I racconti: esisteva l’obbligo di scriverli simili a
quelli dell’Ottocento? E, parallelamente, la regola consisteva nella certezza
di doverli disgregare fino alla pagina bianca?
⟥di notte
Vivevo l’incubo in prima persona,
un sogno fastidioso e lento e nello stesso tempo tranquillo, con l’abituale
dominante scura, ma nelle sembianze di un’altra persona, abbastanza di
bell’aspetto e non troppo avanti con gli anni, con i capelli pettinati nel modo
più ovvio, mentre in realtà tendevo al calvo dall’età di circa 30 anni, ormai
ero “l’artista da vecchio”, rasati ogni settimana. Giunto in una piccola
località di montagna con altri passeggeri, non so se in treno o in pullman,
subito eclissati mentre scendeva la sera in un grigiore più cupo, allontanato
per cercare un alloggio mi trovavo in una zona disabitata e in apparenza
desertica rendendomi conto, nel contempo, di non riuscire ad avere un riparo
per la notte, che si stava infittendo, nello sconforto.
⟥decapitazioni estemporanee
D’istinto non volevo guardare il video pubblicato su “twitter” con la seguente didascalia: "alcuni soldati turchi [militari integrati nella NATO] mentre stanno decapitando i prigionieri appena fucilati". Spiegare: un servizio di notizie, un “microblogging” [un social network] di una certa società americana, I think, su cui gli utenti postavano le proprie comunicazioni interagendo con i “tweet” nella massima economia verbale, seguendo la regola di un numero massimo di parole, poche, in un periodare spesso sciatto e sgrammaticato. Si sa, l’immagine prevaleva: perfino i narratori, intesi come scrittori, deridevano i propri libri e se stessi, almeno finché ne perdurava il trend, poi le cose ricominciavano a cambiare, ritornava l’amore per la fabula, ritornava una solitudine voluta e appagata nella propria stanza, in clausura, alternando il sogno notturno con la fantasticheria diurna, osservando l’esterno attraverso gli stipiti di una finestra. Fino all’ultima caduta, fino all’ultimo respiro.
Poi
la curiosità prendeva il sopravvento, subito pentito. Guardavo: un gruppo di
militari abbastanza giovani accanto ad alcuni cadaveri fra le grosse pietre
sparse in una località brulla. Uno stava tagliando qualcosa con un coltellaccio,
il collo di un nemico, ne staccava la testa, la teneva per i capelli
mostrandola come un trofeo e la gettava fra gli altri corpi, si udiva
parlottare ridacchiando, di sicuro facevano dell'ironia e del sarcasmo, noi
insetti.
⟥la dottoressa
La
signora dottoressa, ovviamente con aria molto professionale, con il sorriso
della rivincita e con un atteggiamento un tantino sadico, spiegava l’orgasmo
prostatico ai due signori presenti nell’ambulatorio nel video di una
trasmissione televisiva riproposto in “rete”. Le donne avevano accesso,
giustamente, a tutte le professioni, per una totale parità di diritti, almeno
nelle società occidentali con trend democratico e nonviolento. Dichiaravano di
volersi occupare di se stesse [“il corpo è mio e me lo gestisco io”, eccetera],
quindi potevano dedicarsi alla ginecologia per togliere il settore ai
ginecologi… invece no, volevano femminilizzare i rivali di genere, metterli in
ridicolo in pubblico, ed eccole esperte di prostata con tutti i problemi della
salute tipicamente maschili, indicando i dettagli fisiologici, visivi, su un
tabellone a mezzo metro di distanza con un bellissimo bastone design,
individuato dalla regia come un elemento dalla valenza simbolica. Capito? Lo si
notava anche quando, urologhe, visitavano i signorianziani, sapendo tutto dei
testicoli e dell’ano in cui infilavano un dito con il lubrificante preliminare,
ora sì che riuscivano a umiliarci.
⟥Curzio Malaparte
[2020]
Nell’altra
casa, dove ogni tanto trascorrevo alcuni giorni, mi capitava di trovare fra i
vecchi libri, mentre cercavo di metterli in ordine, l’edizione tascabile di una
sua narrazione, “la pelle”, Garzanti, 1968. Riletto con attenzione dopo mezzo
secolo, in pochi giorni [lo ricordo ai tre lettori, con una ridicola presunzione
mi ponevo su un piedestallo come “l’artista da vecchio”]. Perfino durante tre brevi
viaggi in treno, accorgendomi di avere interiorizzato sull’autore solo alcuni
pregiudizi. In realtà, riproponendolo quando le vecchie
ideologie politiche sembravano dissolversi come la nebbia a mezzogiorno, poteva
eclissare alla grande tanti altri scrittori del Novecento, esclusivamente per
la qualità letteraria. Il libro, ingiallito, letteralmente si disgregava: si
staccavano i fascicoli, i fogli. I passeggeri con il cellulare in mano, tenuto
come una protesi, nel corridoio sorridevano di commiserazione vedendolo aperto
sul ripiano del mio posto prenotato mentre in mano tenevo una pagina o un
quinterno e con scomodità con una matita sottolineavo le parti dei paragrafi a
mio avviso più notevoli.
In un primo momento il taglio sembrava giornalistico, in
realtà no, vi dominava una carica espressionistica, spesso poetica, vi si
trovava il simbolismo o, se si preferisce, il decadentismo, l’estetismo
dannunziano, qualcosa di barocco in senso positivo, però sempre con una
lucidità critica che se ne infischiava di non essere, come si diceva in quegli
anni d’inizio millennio, nel XXI sec. d. C., “politically correct”, in sintonia
con il comune sentire.
Mi veniva spontaneo sorvolare, non condividendoli, sugli
sprazzi estemporanei e discutibili delle sue visioni riguardanti il mondo
femminile e quello dei signori maschi raggruppati, fra tanti altri nomignoli,
all’insegna dei “Coridoni” [dal pastore Corydon della seconda ecloga di Publio Virgilio
Marone, il personaggio rilanciato da André Gide, uno scrittore di grande
successo ma a poco a poco relegato ai margini della storia letteraria, un
parere approssimativo del sottoscritto, tagliare questo paragrafo].
Come ufficiale dell’esercito del generale Pietro Badoglio,
Curzio Malaparte, il protagonista, raccontava in prima persona con il proprio
nome, affiancando da vinto [nella guerra] e ospite, da giornalista accreditato,
gli ufficiali anglo-americani, in qualche caso a titolo amichevole e da guida,
dopo lo sbarco degli alleati a Salerno, soffermandosi molto su Napoli e su per
l’Italia fino a Roma e alla Linea Gotica, infine con un ultimo sguardo a Milano
su Benito Mussolini morto e appeso a testa in giù in Piazzale Loreto [Claretta
Petacci non veniva nominata]. Lo scrittore, comunque, durante una conversazione
con i liberatori e alle prese con la spocchia superficiale, per non dire
ingenua, della loro ignoranza delle realtà europee, non rinunciava a
sottolineare una cosa: nessuno li aveva chiamati, ponendo le basi dei dubbi
sull’imperialismo USA dei decenni successivi. In copertina una bella
composizione di Fulvio Bianconi.
Intanto mi baluginava l’idea di una cornice. In mancanza di
coinvolgimenti in avvenimenti di respiro mondiale, non invischiati in drammi
epocali, nella Grande Storia, non inclini alle avventure eroiche, potevamo
riunirci tra amici in casa a raccontarci e riassumerci e commentare i testi del
passato, i libri dimenticati, i libri rari, riletti a distanza di tanti anni,
fare salotto fra signore e signori, nell’ipotesi di andare oltre l’impasse
delle avanguardie del Novecento, salvando qualcosa, p.e. la patafisica e il
surrealismo, rinunciando al dolce stile novissimo e alla fine di ogni trend
delle arti visive fino agli spazi vuoti. Durante il coprifuoco: non esisteva la
televisione o il tablet, non si sapeva nemmeno che tutto questo appariva
ridicolo, non interessava nessuno. In alternativa: narrarci le fiabe per
bambini, per ragazzi, per adulti, le sequenze oniriche, i romanzi a puntate,
come farina del nostro sacco, come evasione, per non trovarci di fronte a noi
stessi come a specchi incrinati e appannati, vedendoci vecchi, con
l’inevitabile pensiero soft della Dama in Tailleur Nero. Ci restava poco tempo,
il tempo circolare e inesistente, partendo da un’aspettativa ipotizzata.
Per esempio: i genitori longevi, si sarebbe potuto campare
fino a 92 anni, restavano quindici anni, mettiamo, per realizzare quello che,
se il Cielo lo concedeva, avevamo progettato. Ammesso e non concesso di
rimanere in buona salute, senza il Parkinson e soprattutto senza il morbo di
Alzheimer, senza tumori o altre malattie fulminanti.
Mi recavo a Bologna per una questione di pietas, come con
Greta, una signora novantenne [ricordate]: la mattina in un ospizio per anziani
benestanti, ma eufemisticamente definito un “ospedale” o un “istituto”, a
trovare un’amica, un’ex gallerista di punta, là da poco e ormai sul Viale della
Demenza, purtroppo l’Alzheimer procedeva, alla stessa età della madre, ci
conoscevamo dai primi anni settanta: mi accompagnava in automobile il fratello,
un coetaneo, con il quale restavo in contatto. Contenta di rivedermi, questo
sì, mi riconosceva, però subito divagava e vedeva se stessa da bambina.
Nel pomeriggio, sempre a Bologna, un amico ricoverato da
tempo in un’altra struttura, una RSA [una Residenza Sanitaria Assistenziale],
ma necessario il permesso scritto dalla figlia per accompagnarlo fuori a fare
una passeggiata: optavamo per il giardino antistante, due o tre giri in modo
spedito lungo i sentierini lastricati, guidava la comitiva di due sole persone,
lui e io, come di fretta. Da un pezzo in un mondo con le idee ritenute chiare,
per così dire, se l’annotazione non appariva umoristica. In una sala interna,
seduti a un tavolo, mi mostrava con orgoglio le pagine miste di scrittura e
immagini conservate in un album in buste di cellophane. Proponevo un argomento
ma la conversazione sfuggiva, come squagliata, un soggetto sfumava in un altro
o si staccava di brutto per innestarsi in uno successivo, cambiando discorso,
insomma un soliloquio, un flusso di incoscienza dovuto alla malattia mentale e
non alle sperimentazioni letterarie del Novecento. Nel caso di una seconda
visita avrebbe gradito un dizionario di sinonimi e contrari poiché, diceva, gli
avevano sequestrato il PC: veniva accusato, affermava, di essere un sovversivo.
Viveva da sorvegliato speciale per motivi politici, per cui si autodefiniva un
“dissidente politico”.
Poi compravo altri due volumi di Curzio Malaparte, letti da
giovane, di sicuro perduti, probabilmente svenduti in una libreria di libri
usati, quando ancora tutto questo era possibile, prima di vederne sulle
bancarelle durante le feste popolari, durante le manifestazioni, come secoli
prima, esibiti dai “colporteurs”, così venivano chiamati tali commercianti
ambulanti in rima: richiesti i pamphlets e le stampe d’Epinal, alla lontana
precorritrici dei fumetti, in un tempo circolare.
In “kaputt”, un romanzo pieno di orrori della guerra,
l’autore rafforzava la scelta della misantropia [o, meglio, dell’antropofobia]
in chiunque lo leggesse. Un episodio quasi marginale mi colpiva per la sua
attualità, nella categoria dominante-dominato, colonizzatore-colonizzato,
sfruttatore-sfruttato, marito-moglie, uomo-donna: lo scrittore, durante i
pranzi con i vari ambasciatori, ministri, ufficiali, potenti, tutti fascisti e
nazisti, sia pure con varie sfumature e criticità, con le consorti e con le
dame dell’alta società, raccontava di Giuseppina von Stum, vestita con modestia
e con le mani sciupate, un’italiana che, sposando un grande personaggio, si
riduceva a fargli da serva [ossia a occuparsi della casa e dei figli e in più a
lavorare in fabbrica, come erano tenute a comportarsi le tedesche in base
all’ideologia bellica e all’invito esplicito di sacrificarsi per la Patria.
Tuttavia le signore di alto lignaggio, se di razza germanica,
nicchiavano, al sicuro e defilate, orgogliose, sì, delle sofferenze e delle
miserie e dei lutti dei Tedeschi e delle donne, delle atrocità della guerra
mondiale concentrata in un’Europa messa a soqquadro, però per privilegio di
nascita e di censo ritenevano un diritto non condividere le sofferenze e le ore
in fabbrica con il popolo. Ai capi ariani importava spingere nell’ingranaggio
del lavoro obbligatorio le connazionali, però, non bastando, venivano
affiancate dalle schiave razziate nei territori occupati: Polonia, Ucraina,
Russia Bianca, Cecoslovacchia.
L’Italia, come si sapeva dalla Grande Storia, un’alleata con
tanto di patto e amicizia. E quindi un aristocratico e fanatico nazista
escogitava di sposare un’italiana in seconde nozze, dalla quale produrre altri
figli e ottenendone la schiavitù, a poco a poco messa in dubbio fino
all’inaspettato suicidio consumato buttandosi dalla finestra, senza
avvertimenti drammatici: l’unico strascico… la totale indifferenza del consorte
rimasto vedovo, infatti il ministro barone Braun von Stum non batteva ciglio,
restava sereno e noncurante perfino durante il funerale, seguito da pochissima
gente, da nessuna dama tedesca.
Il sarcasmo di Curzio Malaparte: “Le mogli dei diplomatici
tedeschi sono orgogliose delle sofferenze, delle miserie, degli stenti del
popolo tedesco. Le mogli tedesche dei diplomatici tedeschi non si gettano dalla
finestra, non si ammazzano. Heil Hitler!”. Nelle tipiche varianti formali,
nelle ripetizioni, negli echi interni, come brevi variazioni sul tema, la sua
abituale scrittura letteraria rimandava alle scelte stilistiche di una sorta di
poema primitivo.
Leggendo quelle pagine non potevo non pensare alla situazione
italiana dall’inizio millennio. Quando scrivevo i racconti della piccola
esistenza, intitolati “cornici danneggiate”, in effetti la Germania prendeva il
sopravvento sugli altri paesi europei in quella che, invece di organizzarsi
come una federazione di nazioni sovrane, per il benessere di tutti i popoli del
Pianeta Terra, per l’antirazzismo, per la pace, per la salvaguardia e il
potenziamento dello Stato Sociale, diventava sempre più incancrenita
nell’asservimento finanziario e nella colonizzazione economica. Mi immedesimavo
nella netta percezione, confrontandomi con le dame teutoniche di Curzio
Malaparte, eleganti e oziose, di essere io [ego] stesso una Giuseppina von
Stum, un modesto storico della meschinità in cui venivamo immersi: noi elettori
democratici, sedotti dai politici ambidestri, spettatori della TV e utenti del
social network, ignari dell’unica ideologia dominante mai naufragata:
l’arricchimento individuale, a qualsiasi costo, pecunia non olet, la religione
di Re Mida.