Una cartolina per Aurélia Steiner
d’Ajacciu e Aurelia Steiner de Tunis ⌺
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suddivide in un io e un tu?
Che
sa essere se stessa e alterità,
parte e
controparte di un tutto che fiorisce
in/da
un singolare piano e intreccio verbale? Oppure due distinte Aurélia Steiner?
Due autonome figure di donna e parola con quell’unico vertice, il nome, in
comune? Aurélia Steiner, quindi, come mistero enigma impasse. Una o due? E a
sovrastare questo uno o due il nome in comune. Il nome in comune, o anche: il vertice che tiene saldo l’enigma
e l’impasse. Un vertice che con la sua carica magnetica attrae e
sorprende, un
vertice che cattura nella sua rete un occhio in bilico continuo tra parole che
deflagrano e si adagiano, così, nello spazio della pagina, parole che reggono
un idioma come il sabir privo di
grammatica e ortografia. E in questo reggere l’assenza di una grammatica, di
un’ortografia, la parola si fa libera e viva, e imprime questo suo essere
libera e viva ad Aurélia Steiner che nella parola è e si condensa. Libera, Aurélia
Steiner, di essere movimento fisico e
intimo incontro con l’Eréndira di Gabriel Garcia Marquez, con Enea e Didone,
con la brezza che dal mare arriva sulla Place Maréchal Foch.
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Una vicenda
esistenziale che si fa plastico flusso del tempo, prospettiva capace di
fecondarsi, di concepirsi, parola dopo parola, spogliandosi di regole e
convenzioni. Una realtà emotiva, Aurélia Steiner, che, si direbbe, ribalta il
normale andamento delle cose nel rapporto col tempo. Non è lei, infatti, nella
lotta col tempo il vicolo cieco, è il tempo ad esserlo, perché è Aurélia
Steiner, la donna/parola libera e vibrante, a dare la sua impronta al tempo, a
demarcarlo con il suo corpo, con la sua logica indecifrabile. Che è poi anche
la stessa di chi l’ha creata, ossia del poeta che ha fatto di lei la sua
teoria, la sua forma di essenza epica e
linguaggio. La sua libertà.⌺
Silvia
Comoglio