Alessandro Gaudio
L’ombra sonora
sulla Lisbona
di Wim Wenders
Lisbon Story (1995) di Wim Wenders è un
film assoluto in quanto è svincolato da preoccupazioni narrative, nonostante
sia dotato di un debole plot. In Berlin di Friedrich Wilhelm Murnau, e in
molte altre “sinfonie di grandi città”, la forma scaturiva dall’incontro tra
architettura e musica. In Lisbon Story,
fondamentalmente, accade la stessa cosa: nato come documentario e prodotto con
il contributo della capitale lusitana per il centenario del cinema, il film
racconta di un regista (Frederich Monroe) che, ritenendo incompleto e superato
l’universo muto costituito dalle immagini della città, contatta un suo amico
fonico (Phillip Winter) affinché trovi i suoni che ne àncorino la polisemia.
Attraverso un procedimento meta-filmico, viene portata a
livello discorsivo la ricerca della “sinfonia” perfetta. Il film non coglie
Lisbona nella sua mera significanza alla maniera degli abstrakterfilm del primo Walter Ruttmann. Wenders dipinge la città
da un punto di vista scevro da implicazioni culturali: la modalità ostensiva
scelta dal regista tedesco è basata sull’accentuazione della sonorità del
paesaggio di Lisbona: ciò accorda alla sua visione una certa freddezza, una scientificità
che prescinde dal culturale, ma che ne indica, comunque, il sentimento, la Stimmung.
Il panorama di suoni di Lisbona porta con sé un particolare
sentimento che non è quello dell’autore del film, bensì quello, specifico, di
quel paesaggio. Un paesaggio inteso, non come semplice luogo dagherròtipico,
bensì come spazio anamnestico che gli abituali percorsi sensoriali non riescono
a svelare completamente. Wenders supera la facciata e consuma la città che
percorre, abbassando gli occhi in un’apparente indifferenza emotiva che,
tuttavia, è molto meno blasé di
quanto possa credere lo spettatore di Lisbon Story.
Il flaneur che attraversa la Lisbona di Wenders dilata
i tracciati, le immagini, le distanze solite nella logica della folla, del semplice
visitatore; si abbandona ad un’ebbrezza che, mai vissuta passivamente, vìola la
città per scoprirne il suo doppio, l’ombra
sonora. Per limitare questa incontrollata distruzione dell’ordine
metropolitano della superficie di Lisbona, il regista tedesco utilizza dei
suoni tipici, nei quali è facile riconoscere una civiltà urbana. Lisbona,
insomma, non scompare: il viaggio di Wenders ne restituisce, in ogni
caso, lo spazio e il tempo ad un punto tale che non sappiamo se quella città
sia la sua o un’altra, lontana.
A differenza del documentario classico, Lisbon Story travalica la semplice planimetria dell’oggetto
rappresentato, per raggiungere una significanza oggettiva che non può risiedere
nella plurivocità delle immagini. Wenders usa, per far ciò, dei suoni essenziali,
fortemente connotati, che limitino la verticalità sonora di un senso che, senza
appoggiature, sconvolgerebbe le abituali modalità di visione del fruitore.
Il cinema di constatazione del Ruttmann di Berlin è completamente superato a favore
di un cinema che piega i canali di fruizione usati abitualmente, a favore di
una percezione altra che accorda all’udito una funzione preminente. Lisbon Story si può collegare al genere
filmico inaugurato nel 1931 da Tabu,
anche se nel semi-documentario di Murnau viene accordata una maggiore
importanza all’andamento diegetico e alle sfumature psicologiche dei
personaggi. In Lisbon Story, invece,
Wenders accentua la percezione delle sfumature della città, mentre la fabula è molto meno ostesa. Sia chiaro:
nel film di Wenders, Lisbona è un oggetto che, comunque, può essere sottoposto
ad un giudizio estetico. Tale giudizio, oltre ad essere basato su dati
iconografici, si completa[1]
attraverso l’ascolto dei suoni prodotti dalla città, attraverso la sua ombra
sonora.[2]
Nella co-occorrenza di elementi attualizzati, la ripresa sonora acquista
maggiore importanza: il procedimento di costruzione in progress del découpage
sonoro è affiancato da frammenti di un intreccio che passa in secondo piano. I
suoni e i rumori di Lisbona assurgono ad elemento profilmico, scenografico.
Tale elemento orienta la percezione del paesaggio in se stesso e la salienza
dei programmi narrativi. Nella gerarchia dei sensi da utilizzare per cogliere
l’insieme cittadino, l’udito diventa il più importante.
Il profilmico, così orientato, influenza quello che, secondo
Eric Rohmer, è lo spazio virtuale prodotto nella mente dello spettatore: lo
spazio filmico. Dimensione molto più complessa che si serve dell’aiuto dell’osservatore
per realizzare, sia a livello figurativo, sia a livello grammatico-strutturale,
quel sur-plus semantico irraggiungibile, se si considera l’immagine dinamica
come un oggetto concluso. Un oggetto indipendente, cioè, dai processi
interpretativi che, abitualmente, seguono la percezione primaria dell’oggetto
stesso.
Lo spazio filmico è uno spazio costituito dai rimandi mnesici
dell’individuo o del gruppo che funge da osservatore: l’immagine trova la
strada della sua piena enunciazione attraverso la connotazione che ne completa
il senso. L’illusione parziale, che l’immagine cinematografica produce su chi
la guarda, è rafforzata da un’altra componente che, contemporaneamente, si
mantiene fedele alla realtà percepita e produce una sorta di vertigine. Wenders
dilata i suoi spazi attraverso un procedimento che forza il dispositivo di
lettura dello spazio architettonico, ma, ancora, non ne infrange i canoni
abituali. È la nostra rappresentazione mentale di Lisbona, intesa come oggetto
immediato, a mutare sensibilmente e a suggerirci le sue illimitate direzioni.
Nonostante questo sbilanciamento di prospettiva, l’opera ha una sua organicità,
tutto sommato, piacevole e, attraverso una produzione di senso controllata
nella sua verticalità, suggerisce un nuovo modo per limitare gli investimenti
eccessivamente soggettivi dello spettatore.
Se si contrappone “movimento” a “emozione”, Lisbon Story è, senz’altro, maggiormente
pregno del primo dei due termini. L’emozione scaturisce dal movimento stesso:
non da quello dei personaggi, bensì dalla non-staticità di un’inquadratura che
non subisce la hybris del
personaggio: al contrario, la suggerisce, la rende meglio visibile, più
staccata dallo sfondo. L’emozione che trasmette Lisbon Story non dipende da un solo significante, ma da una figura
più complessa, perché sempre in movimento, non definibile nel carattere statico
di un’inquadratura, un personaggio o uno sfondo. Chiameremo questa figura vettore-significante: termine che, nel
caso di Wim Wenders, incrocia le tematiche di superficie che il regista ha
frequentemente raccontato: in particolare, quelle riguardanti il viaggio.
[1] Sarebbe meglio parlare di
un giudizio che, attraverso l’ascolto della Umwelt
urbana, matura un orientamento psicosensoriale sempre più preciso, ma mai
completo.
[2] Wenders, attraverso tale
semplice procedimento, si allontana, in un certo senso, dal luogo geografico e
mentale.
Ô
L'ombra sonora sulla Lisbona di Wim Wenders
è stato pubblicato in "Lunarionuovo" n.12, Catania novembre 2005