░ photo by enzo monti |
DIALOGO IMPOSSIBILE TRA L’ANTI-INTERGRUPPO E LA NEOAVANGUARDIA
Quando, nel 1968, esplose
la protesta giovanile, molti di noi non erano più giovani ma ebbero la
sensazione che stava arrivando la loro occasione per sentirsi tali e contestare
assieme agli studenti, e agli operai poi, quella società che li aveva resi
incapaci di entusiasmi, impotenti e accomodanti.
Nel flusso ergonomico,
che arrivava da Parigi trasportato dal vento e dalla corrente del Golfo per
essere partito dal Mohave Desert e dalle Rocky Mountains dove i figli dei fiori
si erano segregati tra cactus e spine in una specie di calvario tutto intriso
di misticismo, iniziarono a tuffarsi gli studenti della Sorbona: ai quali ormai
era vietato l’uso della Senna, resa inquinata sia dagli scarichi industriali
che dalle feci cerebrali di De Gaulle.
Costretti ad ingoiare la
rana di Algeri; a mettere in pensione la legione straniera; a fare i conti con
la storia europea (e con le proprie finanze) il vecchio quadro politico,
militare e culturale francese si declassò a vivere di ricordi sulla propria
grandeur mentre la tecnologia rivoluzionava la struttura industriale creando
nuovi mostri di capacità tecno-scientifica che a livello di macchine si
chiamavano cervelli elettronici e a quello di uomini si chiamavano managers,
capaci di produrre sempre nuovi oggetti funzionalmente inutili ma suggestivi
come segno, e perciò come arte.
Schiacciata tra la
dimensione decadente del tipo tardo-impero e quella futuribile elettronica e
poliesterica, la gioventù francese rimase per qualche tempo attonita e
stupefatta finché rottosi l’equilibrio delle forze sociali a favore dei
tecnocrati e quindi del materialismo consumistico, sulle ali del capitalismo (e
non su quelle del Capitale), cominciò a volare verso una società tutta propria,
fatta di intuizione, intuismo, induismo o riflessione, utopia, immaginazione,
fantasia e cioè qualcosa che fu più una rivoluzione dell’arte per l’arte, che
una rivoluzione dell’arte per la vita – come invece s’era fatto nel 1789.
La rivoluzione, gestita
dagli artisti, fu scarsamente sentita dalle masse opulente e crapulone francesi
e tedesche, in quell’anno dalla grande
bouffe, ma trovò presto negli epigoni italiani – intellettuali e cultori di
cultura e sopratutto nelle forze operaie di recente emigrazione o emarginate –
tutta la forza proletaria che le necessitava per divenire lotta di classe
contro il padrone (o contro lo Stato quando la contestazione si arroccò e sviluppò
tra il proletariato).
Ci fu dunque la
guerriglia contro la polizia, l’occupazione delle fabbriche e l’aumento della
produzione, l’appropriazione di spazi vuoti da parte degli artisti che
inventarono i murales (o le poesie sui muri); che scoprirono il rapporto
lascivo tra parola ed oggetto: ed oggetto divennero spesso le persone-ascoltatori,
i quali si chiusero nella loro alienazione-incomunicabilità detta
sperimentalismo, e in cui si sperimentava solo la morte dell’arte – o come si
poteva soltanto farla morire con il suicidio-silenzio dell’artista.
In questa nuova dimensione
esistenziale che si impadroniva di tutto il corpo sociale italiano, dalle Alpi
alle Piramidi; dagli Appennini alle Ande, dalle Madonie fino ai vulcani di
Stromboli, dell’Etna e del Vesuvio con Luciano Caruso e quelli di Linea Sud che
riuscivano appena a fare un gesto poetico, alcuni di noi entrarono nel movimento
portandovi la carica esplosiva di intellettuali repressi dalle istituzioni
borghesi che fino allora avevano condizionato e dettato la cultura sotto forma
di accademia lessicale e sintattica o sotto forma di avanguardia asemantica e
asintattica.
Il nome di battaglia fu
subito Antigruppo, vuoi perché nasceva col proposito di distruggere quel gruppo
63 che aveva tradito le speranze legate alla rivoluzione permanente del
linguaggio in grado di liberare l’uomo dal servaggio delle istituzioni
linguistiche, vuoi perché si rifiutava la concezione del gruppo; l’esistenza di
un qualsiasi capogruppo; di una qualsiasi poetica o estetica che non fosse
quella dettata dalla contingenza storica immediata che ciascuno di noi viveva
con gli strumenti classici o scientifici (per cultura e capacità di analisi)
che aveva vissuto momento per momento.
Iniziò così, tra cortei,
manifestazioni di piazza e terremoti, la nostra attività che fu sempre
collegata alla base operaia e contadina, mentre l’altra avanguardia dei Testa e
Perriera catturava ed imbrigliava la ribellione studentesca portandola su
posizioni massimalistiche e retoriche, tautologiche e hymniche che di fatto la
astraevano dalla lotta di classe, per cui il dilemma divenne: L’immaginazione al potere, o la classe
operaia?
Per quelli di noi che
avevano una matrice marxista (Terminelli, Cane, Certa, Diecidue, Di Maio ed
altresì io stesso ed in seguito Calì) la scelta fu facile, ed altresì per
altri, (di estrazione anarchica o anarcoide, o semplicemente libertaria), la
tentazione di fare del populismo illuministico rimase una costante su cui di
volta in volta si poteva anche trovare qualche marxista come lo stesso Certa,
Diecidue, e Pirrera.
Mentre dunque da noi si
manifestava subito questa tensione sociale che ci portava a Ustica per la
poesia murale e le recite di poesia in piazza sia per onorare la memoria di
Gramsci, malgrado l’ostilità del gruppo di potere che dominava l’isola e che ci
scagliava contro il coltello di un aguzzino, sia per avere un rapporto diretto
con gli abitanti di quell’isola fino ad allora e da sempre escluse dalla
cultura, a Palermo The last tycoons
dell’ex gruppo 63 si contendevano lo spazio dei 172 per spettacoli
d’avanguardia sempre più tristi perché sempre più vuoti di spettatori e di
contenuto che non fosse l’idea del teatro per il teatro: cui seguì l’altra
tentazione di fare letteratura per la letteratura (con Fasis); l’arte per l’arte (con la Galleria nuova presenza); la musica per la musica
(con Collage 8: Sesta settimana di musica internazionale).
In questi due vasi (il
nostro e il loro) appena appena comunicabili per quel tanto – o quel poco che
la forma aggiunge al progetto di società più giusta, allorché sia priva di
violenza, aggressione, repressione e sfruttamento – non ci restava che
continuare da soli la nostra irresistibile ascesa verso le colline dove c’erano
paesi che avevano conosciuto certamente dei grandi fatti di cultura quali
furono le occupazioni delle terre, e che però non avevano mai visto un
intellettuale – poeta o scrittore – se non nel video: e nemmeno poi tanto
perché quelli erano troppo distanti dal loro mondo quanto dalla loro area
geografica.
Andammo dunque a
solidarizzare e recitare, scoprire e scoprirci in paesi come Aliminusa, Montelepre,
Cerda o Isnello, mentre nell’area trapanese si toccavano centri come Paceco,
Mazara, Sciacca, o Partanna tra condiscendenza, dissenso, o crescente
entusiasmo (Giarre) che si conclusero con la pubblicazione di due grossi volumi
antologici dal titolo Antigruppo 73, che fu allo stesso tempo l’occasione per
gettare Santo Calì, che ne fu il coordinatore, tre volte nella polvere e tre
volte sull’altare.
Per le polemiche che
seguirono quella pubblicazione, mentre qualcuno aveva delle paurose sbandate di
carattere individualistico e mercificatorio (quel Cane poeta-pittore che non
riusciva a dimenticare le sue ascendenze avanguardistiche e misantrope che lo
dovevano portare temporaneamente sull’area massimalistica ed esclusivistica dei
marxisti-leninisti, e ciò dovuto a quel suo primo amore per gente come
Francesco Leonetti e Roberto Di Marco) o semplicemente
individualistico-rodomontesco (quel Nat Scammacca che cominciava ad avercela
con tutti, dopo essere riuscito con tanta abilità a creare un tessuto
associativo con molti intellettuali del nord e addirittura con gli scozzesi, o Duncan
Glen), si decise di dar vita ad una pubblicazione aperiodica palermitana – come
distinguo dall’area trapanese che si riconosceva in Impegno 70 e nel suo asso
piglia-tutto, padrone e signore della rivista – quale strumento alternativo
alla cultura che continuava a dominare quella città – questa volta sotto il
nome di Leonardo Sciascia – o tutta quanta l’Italia con i soliti noti.
Nacque dunque Antigruppo
Palermo, con Cane, Scammacca, io stesso e Pirrera il quale però di lì a poco si
dileguò e lo stesso fece Cane, ma in cui entrarono Terminelli e Di Maio, con la
solita irruenza del primo e la meditata sapienza del secondo, cosa che avrebbe
finito purtroppo con l’urtare la sensibilità dello Scammacca per una
affermazione poco gradita sulla sua poetica fatta appunto dal Di Maio: al fine
di identificare le forme ed il linguaggio più attivo tra quelli dell’Antigruppo
in grado di vincere, con la forza anche delle loro convinzioni marxiste, e
tecniche strutturali althusseriane, il braccio di ferro (o di burro) con i
sopravvissuti dello sperimentalismo puro.
Il resto è ampiamente
noto per essere stato trattato da molti. Mi astengo perciò dal continuare a
parlarne.
Ignazio Apolloni