La losanga dell'ainfarmi ◆


La losanga dell'ainfarmi
SIGMAPOST |30
Lo spirito aspro del Dasein
 

Il paradosso dell’imperativo di  
F. Pinzùne




L’Essere, parafrasando Watzlawick, quando ci narra del paradosso di Newcomb[i], vi mostra due scatole con il suo imperativo: nella prima, c’è una sorta di lapsus calami: → “ainfarmi” vs “aiutarmi”; il gesto calligrafico, con la pulsione szondiana dentro il punzone della cosiddetta →Francesca Penzù[ii], sommuove questa impudente voglia: se puoi ainfarmi, fallo! Siamo nel secolo scorso e il →“bagliore ainico”(che sarebbe la versione più saracena del cosiddetto “bagliore didonico”), formalizzato dal poeta cosiddetto dell’Enzuvë, era di là da venire, nonostante si fosse già addentro all’Enzuvë per via dello speculare →Jésuve di Georges Bataille.
Nella scatola 1, allora, la Penzù ci ordina questo; nella scatola 2: →diversamente, dammi i mezzi per farlo io. Quell’Essere, la F.Penzù, ha disposto i seguenti risultati: se scegli l’alternativa 1 e mi ainfai, allora abolisci la distanza(il poeta è lontano mille chilometri) e fallo, ainfammelo! Che è quello, insomma, enzuvare il bagliore ainico del trunânte; se scegli la scatola 2, allora dovrai darmi i mezzi per farlo io: cioè devi rispondere alla mia epistola così mi dici se hai capito che ti sto chiedendo, e così facendo avrò la certezza di stare, ainfacendolo io, nel tuo piacere singolare, perché anche tu, anche a distanza, mi starai ainfacendo quello che io mi sto ainfacendoti fare,insomma mi ainfaccio e tu mi ainfai.
La bellezza di questi due imperativi in questa situazione immaginaria è che ci sono due risultati egualmente possibili ed agualmente plausibili, ma totalmente contraddittori: una sembra più logica e ovvia e anzi pare che la seconda alternativa potrebbe, nelle menti più inutili e semplici, non dico essere compresa ma addirittura nemmeno presa in considerazione. Nondimeno, può suscitare, in entrambi gli epistolanti, una voglia fortissima per ambedue le strategie, e ciò ci rigetta in una realtà, visto poi come andarono a finire le cose, →“ove tutto è scritto, è vero anche il suo contrario”.
Secondo la prima argomentazione, il poeta avrebbe potuto avere fiducia quasi completa nel primo imperativo dell’Essere: da ciò segue con logica quasi inevitabile che, qualora il poeta l’avesse fatto, avrebbe poi preso entrambe le scatole, e quindi quell’Essere, che aveva previsto in qualche modo questa mossa e, in conformità alle condizioni e alla distanza, cosa avrebbe messo, dopo che il poeta gliel’ha ainfatto il trunânte, nella scatola 2 per riaccendere il bagliore ainico così bestialmente ainfatto dal poeta nella scatola 1? Ma, cribbio, i mezzi che il poeta gli ha enzuvato ainfacendola!
Questo cosa comporterebbe? Che è nella natura dell’Essere, e nel suo rombo con quella spietata, avida, bestiale pulsione mai colma e mai tanto ‘nzuvata, che la scatola, o la busta, essendo un’epistola, numero 2, per la sua stessa natura, è quella che annulla non solo virtualmente la distanza tra i due epistolanti, anche se è inevitabile la conclusione che il poeta, ammesso che non abbia mai risposto, con un’altra epistola, non è detto che non gliel’abbia ainfatto, magari, dopo che quell’Essere si sia immobilizzato nella fotografia in cui è seduta sul palo che, ne converrete, a vedervela così sospesa, il 31 glielo vorreste ainfare pure voi, e anche il 33, stando così dietro l’Essere e i due imperativi. A prescindere da come abbia deciso il poeta, e anche quella Penzù, per via del Pinzùne, già messo nel rombo del poeta otto mesi prima, l’imperativo 1 era già lì(o no) dal 20 giugno, o dal 12 ottobre dell’anno prima, magari una settimana dopo o dieci giorni prima che la lettera sia arrivata a destinazione, per quanto poi al momento il destinatario non abbia preso nessuna decisione.
In fin dei conti, il problema è semplicemente questo: di fronte alla necessità di fare una scelta, qualunque scelta, come scelgo?
Se credo veramente che la mia scelta sia determinata da tutte le cause del passato, è inevitabile che, in quella circostanza, le cause del passato non mi permettevano di fare l’unica scelta che potevo o volevo fare; più tardi, poi, l’avremmo visto, sembra che i mezzi di cui all’imperativo 2 siano immani e ineluttabili e quindi non si può non cominciare ad ainzivarla nel piacere singolare più impudente e proibito che possa essere messo in scena tra il rombo di Lacan del poeta e la losanga di Lacan dell’Essere cosiddetto F.Penzù.
Non ci sono alternative, e anche se penso che ce ne siano, questo stesso pensiero è null’altro che l’effetto di qualche causa nel mio passato personale. E, in relazione all’Essere, nel suo passato personale. Per non parlare dell’etica e della morale.
La seconda argomentazione, che era quella di prendere tutte e due le scatole, e quindi gli imperativi: →|fallo nel più breve tempo possibile|← e, poi, →|diversamente dammi i mezzi per farlo io, ancora|←. Nel senso che: tu me lo ainfai nel più breve tempo possibile e poi, con i mezzi che mi hai dato ainfacendomi, te lo ainfarò io, nel più lungo tempo possibile. E’ logico, si ragiona in base al significato logico, atemporale di se-allora: “Se mi |ainfai| subito, allora mi dai i mezzi per |ainfarti| a seguire anche quando me l’hai già |ainfatto|”.
I sostenitori di questa seconda argomentazione pensate che possano essere il destinatario e l’Essere dei due imperativi, anche se questa viene dopo l’espressione degli imperativi e dopo la successiva ricezione dell’ordine? Anche se in precedenza ci si continuerà a chiedere quando ha avuto luogo l’ascesa del punzone al rispettivo meridiano di ognuno e, conseguentemente, prese le due scatole, l’Essere quante volte s’è ainfatta nel suo piacere singolare lungo quanti lustri, 5 o 9 e, versus, quello dei mezzi da dare quante volte se l’è ainfatta la signora Pinzù nel suo piacere singolare lungo quanti lustri, 4 nel secolo scorso e 4 nel secolo attuale?
Insomma siamo o no nel |desiderio omometrico|omometria”, disse Barthes, come eguaglianza di misura  tra il dire e il detto, tra il desiderante e il visionatore. E’ questo! Sarebbe questo il desiderio omometrico? La cattura istantanea del visionatore ad opera della cosa stessa, che è come se fosse uno schema verbale o un avverbio: assolutamente, è questo! Pinzù che cosa sta facendo, sul palo en plein air lassù in montagna o con quel →|Pinzùne|, tra muso e naso, →che |Chjovàra|!,  che cosa sta facendo assolutamente? Quello che è, non c’è nient’altro da dire e da guardare. Ovvero: non si può dire, ed è precisamente così, il contrario del reale e del realismo, sotto la maschera dell’esattezza, scrisse Barthes, donazione folle di senso. E quindi la naturalità della cosa e il buco, →o quell’|ainfarmi |: “se puoi ainfarmi, fallo nel più breve tempo possibile!”[iii] ← che fa accedere alla Differenza dell’ainfatto.


La losanga dell'ainfarmi, il lapsus calami di Uratruna
ainfarmi 33
[i] Cfr. Paul Watzlawick, La comunicazione immaginaria, in: Idem, Il codino del Barone di Münchhausen, trad.it. Feltrinelli, Milano 1989.
[ii] Vedi e leggi Il Tomahawk irredento e il gesto calligrafico, Uh Magazine 2020/03
[iii]     Scrisse al poeta lontano: "ainfarmi nel più breve tempo possibile". Lo schema verbale contiene 8 lettere, l'avverbio di tempo è lungo 25 lettere, in totale fa 33, che è questo che vuole che il poeta le ainfaccia: ainfarla nella Misteriosa, che è la 33 del Foutre du Clergé de France, in cui il poeta, anziché sulla sedia, è seduto sul palo e lei, anziché sollevare la gonna, si cala i jeans e...il poeta la "ainfà". Nel più breve tempo possibile.

Il deretano di Uratruna si avvicina per molti versi al soffice patagonico Jinzu -Zō

  e l’esercizio sul soffice Jinzu è speculare all’ainfarmi e all’ainfatto